GIACOMO TI SAREBBE PIACIUTO

Ne sono sicura. Sì, ti sarebbe piaciuto. I tipi così li adoravi, quelli che se ne fregano del mondo intero, che hanno sempre tutti addosso e poi dalla tasca destra tirano fuori una matita ed eccoti servito il mondo, lì su un pezzo di carta, solo per te. Tu gli avresti detto che ti piace l'inverno e ti saresti fatto disegnare la città in certe sere fredde, con le luci che si riflettono sull'asfalto lucido di pioggia. E a te non avrebbe detto di no, tu le sapevi chiedere, le cose. Ne sono sicura, gli avresti chiesto la città, solo per te, su un foglio di carta, e alla fine avresti detto che era molto bravo, con gli occhi scintillanti per l'ammirazione. Con il cuore. La odio, quest'espressione, ma per le cose che ti riguardano non ne so trovare una migliore.
Erano proprio queste le cose che ti piacevano: le persone non comuni, le sorprese, le cose insolite. Non ne avevi paura e con uno così non avresti perso tempo. Tu saresti stato gentile e basta, e poi l'avresti sommerso di domande, senza sciocchi pregiudizi e timori. Magari l'avresti pure invitato al cinema a vedere Rio 2 o a fare un giro. Come quella volta che ti dissi che secondo me uno era carino e mi hai detto invitalo a pranzo, come se fosse la cosa più normale del mondo. Ti avevo risposto seccata che allora non ti piacevo più, che ci vogliono i modi, con le persone - proprio io, la grande esperta-, che non è che si può fare sempre come vuoi tu. A volte ti entusiasmavi così tanto per le cose, le persone, e avevi quel modo così ingenuo di dimostrarlo che non di rado mi ero vergognata di te, soprattutto quando c'erano le mie amiche. Io volevo che fossi un ragazzo come tutti gli altri, uno che sta in disparte, e invece sembrava che volessi mettercela tutta per dimostrare proprio il contrario e sembrare diverso. In quei momenti ti odiavo. Quando le mie amiche se ne andavano litigavamo sempre e tu rispondevi alle mie critiche sbuffando, come se io fossi la persona più noiosa di questa terra. Ma cosa ho fatto, continuavi a ripetere, cosa ho detto, e più mi arrabbiavo più mi facevi passare per una pazza furiosa. Finito di litigare, i giorni dopo non sopportavo nemmeno che mi chiedessi come era andata a scuola. Tu in realtà facevi solo finta, non te la prendevi mai. Anche quando sbucava il discorso di mia madre e io ti rovesciavo addosso tutte le mie idiozie, preferivi tacere e chiuderti in te stesso invece di rispondermi. Per un attimo ti rabbuiavi e forse rivivevi istanti dolorosi e lontani di cui io non avrei mai saputo nulla, ma alla fine vinceva sempre la tua parte migliore. La rabbia si arrendeva alla dolcezza, alla tua allegria, e tornavi quello di sempre, un pò incasinato, maledettamente affettuoso.
Se incontrassi ora uno con il tuo carattere, diventerebbe il mio migliore amico. Ne sono sicura, e sarei più indulgente con lui di quanto lo ero con te.
La tua allegria mi piaceva, anche se a volte la respingevo fingendo di trovarla stupida e inutile. La mia rabbia invece mi sembrava profonda, giustificata.
Mi manca tantissimo quell'allegria, ora, proprio come l'amico che non ho mai avuto.
( Continua... )

Bacioni!

Jù.

NEI TUOI OCCHI

Sono trascorsi quasi dieci anni dalla tua morte e a volte sul mio viso non vedo altro che un' espressione assente.
Adesso vivo da sola, cucino poco, lavo, insomma, faccio le cose che non sapevo fare prima, ma a volte mi sento ancora come se qualcuno mi avesse portato via tutto, una che ha subìto una violenza inaudita: il volto cupo, le lacrime alle porte degli occhi, le labbra piegate in una smorfia amara. Quando torno a casa mi sforzo di essere gentile con me stessa e faccio finta che qualcuno mi chieda come sia andata al lavoro, non mi sento ridicola. In fondo, ridicola non lo sono mai stata.
Adesso che nemmeno lei c'è più le cose che facevo prima sembrano prive di senso, come recitare un copione che conosco a memoria, le improvvisazioni ormai sono cosa rara.
Vedermi triste a volte mi fa male, mi fa sentire ancora più vulnerabile, più sola. Il fatto che ci sia la mia famiglia e i miei amici non migliora la situazione. Una persona che hai amato fino a poco tempo fa non la sostituisci con niente e anche se ho tanta gente che mi vuole un mondo di bene non è la stessa cosa e tu lo sai benissimo.
Certe volte ti penso e ti immagino seduto in cima a un tetto dopo un tremendo nubifragio, le cose che amavi sommerse dall'acqua e dal fango, privo del desiderio di venire salvato, pieno della rabbia di essere sopravvissuto. A volte mi sento maledettamente triste, e non è quella tristezza che puoi plasmare per farla assomigliare a qualcos'altro, qualcosa di più dolce, più leggero: è una cosa simile alla pietra, non la scalfisci, serve solo a non farti muovere. Vorrei aiutarmi in qualche modo, ma non riesco a fare niente, anzi, preferisco ignorarmi. La mia angoscia è lo specchio di quella di tanti anni fa, e io non voglio vedere, non cadere in quello specchio stregato. E allora provo a fare finta di niente, strisciando lungo le pareti della mia solitudine, facendo attenzione a non incrociare il mio sguardo negli specchi di casa.
Tu dicevi sempre che io assomigliavo a una contessa musona. Mi chiamavi così quando tornavi in camera e mi trovavi alla finestra, prigioniera dei miei pensieri. Eri sempre tu quello che allontanava le ombre e rompeva il silenzio. Ricordo ancora quando sentivo la gomma delle tue Silver sul pavimento e tu entravi: ti fermavi, mi guardavi, spargevi la tua voce ovunque, riprendevi i discorsi interrotti, facevi incontrare le parole, poi ti toglievi le scarpe, ti sedevi vicino a me come a raccogliere i tuoi e i miei pensieri, e mi guardavi.
In quei momenti stavamo insieme dentro i tuoi occhi e ci accorgevamo, io e te, di quanto eravamo simili.
( Continua...)

Bacioni!

Jù.

L'EQUILIBRISTA

Ricordo un film con un uomo che prima di morire chiama le figlie a sè e una alla volta fa loro una specie di discorso d'addio. Giò non fece nulla di tutto questo.
L'unica cosa che mi disse fino alla fine, che non si stancò mai di ripetermi, fu che mi voleva bene e che ero stata la cosa più bella della sua vita. Quando stavamo insieme durante la chemio mi faceva parlare molto: della scuola, delle mie amiche, delle cose che volevo fare. E poi, verso la fine, quando cominciava ad essere molto stanco, mi chiedeva semplicemente di sedermi accanto a lui, sul letto. Allora mi stendevo al suo fianco e gli prendevo la mano, o lui mi posava la sua sui capelli, e dormivamo un pò così, come a scavare altro tempo nel tempo, a creare anse, vie di fuga.
E' morto una mattina di aprile. Già da qualche giorno non si alzava più. Il dottore aveva aumentato la dose di morfina e lui dormiva quasi sempre. Parlava pochissimo, e se lo tenevo per mano non la stringeva più come prima.
Quando Giò morì non sapevo quello che avrei sentito. Ho pensato che non poteva essere vero, e solo in quel momento mi sono resa conto che non avevo mai creduto fino in fondo che quel momento sarebbe arrivato.
In quei mesi mi ero abituata a vederlo malato e alla fine mi ero convinta che sarebbe stato per sempre così, non che potesse finire. Quando lo vidi immobile, la bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la paura fece di nuovo il suo giro e alla fine della corsa mi ritrovai come svuotata.
C'erano stati giorni, certo, che avevo pensato a come sarebbe stato vederlo morto, ma anche in quel momento, con la sua morte davanti ai miei occhi, semplice e terrificante, continuavo a non crederci.
Mi avvicinai e trattenendo il respiro fissai il suo volto immobile, poi gli presi le mani e le strinsi con forza, lo chiamai, mi chinai a baciarlo e appoggiai la mia fronte sulla sua. Sua madre, in piedi vicino alla porta, sussurrò non c'è più con un sorriso di lacrime. Non c'era più.
Mi manco la terra sotto i piedi e ancora la paura mi strinse al suo petto e respirai solo l'aria velenosa dei suoi polmoni.
Il mio fidanzato non c'era più.

Quando lo seppellirono, a parte io, sua madre e sua nonna, c'erano anche tutti i suoi amici storici.
La fotografia che avevo scelto gliel'avevo fatta io il giorno del mio ultimo compleanno: mi sorrideva e quando sorrideva Giò era bellissimo.
I raggi di un sole pallido di quel tardo pomeriggio d'aprile rendevano tutto più triste.
Io e sua madre non riuscivamo a guardarci negli occhi. Ci sentivamo frastornate, esposte. Avevamo stretto troppe mani, respirato l'odore denso di tutti quei fiori. Della chiesa ricordo gli scricchiolii delle panche, il sommesso bisbiglio, una confusione di volti dietro le lacrime e gli occhiali scuri, nient'altro. Quando fu tutto finito, qualcuno mi prese sottobraccio e mi portò piano verso l'uscita del cimitero senza dire una parola.
Nei giorni che seguirono cercammo di sistemare le sue cose, anche se ce ne mancava il coraggio. Tutti i vestiti che erano rimasti per mesi sulle sponde delle poltroncine in camera da letto vennero lavati, ripiegati e infine sistemati dentro il suo armadio. Il letto venne disfatto e rifatto, le imposte accostate. C'era anche una signora a darci una mano. In realtà non serviva, ma credo che sua madre l'avesse chiamata perchè nel momento in cui mise piede nella stanza di Giò tutto il dolore di quei nove mesi le si riversò addosso.
Di questa signora ricordo che fece tutto in silenzio.
Prima di rifare il letto in camera di Giò mi sussurrò che era meglio fargli prendere un pò d'aria e me lo disse stringendomi una mano tra le sue, guardandomi con sincera comprensione, lo sguardo di chi non teme la tristezza degli altri. Subito la stanza si riempì di freddo, ma quell'odore di medicine e di morte io lo sento ancora.
Sua madre rimase di là, il viso contratto, lo sguardo fisso verso la cima dell'abete che si vede ancora da una delle finestre del soggiorno. Diedi alla signora Rosa tutte le indicazioni per riporre le cose al loro posto, fui io la sacerdotessa che si occupò del tempio, in silenzio, come temendo che se avessi parlato a voce troppo alta io e sua madre ci saremmo potute svegliare e accorgere che Giò era morto.
( Continua...)

Bacioni!

Jù.