C'era un vecchio disco dei Pink Floyd che non piaceva a nessuno. Cominciava con una macchina che sfrecciava e una radio che mandava notizie. In sottofondo potevi sentire quelle che sembravano monete fatte saltare in una mano.
Io adoravo quel disco. Parlava di guerra. Guerra e padri che se ne vanno. Ma a distanza di tanti anni ho capito perchè mi affascinasse tanto. Non era la musica, che pur mi lasciava senza fiato. Erano i suoni che ogni tanto buttavano in sottofondo.
Suoni di bombe laceranti, piccole vite di bambini che piangevano, lacrime colossali in cortile, catene e cancelli aperti bruscamente, il vetro di una finestra che si infrange, gomme di autocarri che scivolano sul ghiaccio, la scintilla della testa di un fiammifero che prende fuoco, la lamiera di un aereo che fischia nel cielo, la pioggia che piange sul tetto di una fabbrica, cani che latravano vivi, porte sbattute dal vento, radio e macchine. Macchine, appunto.
E l'atmosfera. Perchè da un momento all'altro una canzone dolce si tramutava in tragedia, la voce si affilava e perdeva calore, tagliava un solco tra le orecchie, le chitarre sanguinavano, vedevi i colori ed erano tutti scuri, bui. Saltavano i vetri.
E alzavi il volume a palla per riuscire a distinguere quelle parole straziate là in fondo. Erano sotto milioni di strumenti eppure la mia attenzione dribblava bassi, batterie, corde e finiva sempre lì.
Tra il lucido ticchettìo di un orologio a muro e una risata sinistra c'era qualcuno che lanciava il suo urlo disperato. Un messaggio in una bottiglia raggiungeva solo me.
Ma i brividi più forti li beccavo in un punto preciso. Il mio corpo lo sapeva e aspettava per goderseli. C'era la solita voce calma in sottofondo che parlava alla radio. Poi calava il silenzio e quando quasi ti c'eri abituata, quando eri tranquilla, il rumore assordante di una bomba atomica sconvolgeva tutto e potevi sentire di nuovo la voce di prima che adesso era come liquefatta dalla tensione, gridava allarmata che quasi potevi vederla scappare in preda al panico, fuori dalla gola.
Era lì che avevo i brividi più forti. Nell'eco della bomba che inseguiva il vento. Quando partivano tre note di piano.
E' così che prima ho pianto. Quando mi hanno lasciata sola e non dovevo più tenermi tutto dentro. Quando mio padre ha rimesso quel disco e ho ripensato a quella sera. Quando la mia RADIO, nella mia MACCHINA, mandava una canzone dolce, poco dopo cena. Quando guidavo sui settanta ed è scoppiata una GOMMA in curva. Quando ho realizzato che stavo per saltare il guardrail e finire in un fossato e ho frenato e si è ribaltata la macchina, in un fiume di SCINTILLE che l'hanno viste dal cielo. Quando ho battuto la testa contro il TETTO sfracellato sull'asflato e c'erano VETRI e CD dappertutto.
Quando stordita e obbligata a tenere l'orecchio sinistro sulla spalla, ho avuto freddo. Un freddo terribile passare dalle mie ossa di vetro fino al compact disc rigato del mio cuore. Una coppietta su una Punto rossa modello vecchio mi stava dietro, ma riuscì a evitarmi e scomparì nelle fogne della notte, pieni di spavento. Spero pieni di colpa- almeno quella notte- per non avermi soccorso.
E solo un CANE s'era accorto di me, abbaiando forte nel CORTILE a poche decine di metri dal mio incidente. Quel cane che sembrava chiamare il mio nome o forse solo qualcuno che mi tirasse fuori di lì o che forse voleva farmi sapere che l'avrebbe fatto lui, non ci fosse stato quel CANCELLO di mezzo. Ai cani non manca la parola affatto.
E mentre restavo lì, immobile, a non capire niente, guardavo il fumo uscire dal radiatore e solo allora mi accorgevo che la radio continuava a suonare, noncurante, menefreghista e fredda come il GHIACCIO. Ma quella radio mi stava regalando una certezza, quello che volevo sapere. Non ero morta.
Non volevo restare a esplodere coi rottami di una LAMIERA, ma la portiera era bloccata. E mentre le ruote della mia macchina si godevano le stelle del primo maggio, fu strisciando a testa in giù che riuscii a raggiungere e forzare l'altra PORTA quel tanto, da permettermi di uscire incolume. Non un graffio. Sessantaseimila chilometri in quattro anni sfasciati contro una riva.
Il VENTO sbuffava annoiato sui miei jeans e colpiva ancora, quasi a ricordarmi che non s'era emozionato per niente e non sarebbe stato una VITA di meno a farlo smettere.
Non ero morta, ma per sentirmi viva dovetti aspettare che arrivassero le LACRIME. Mie e di Marianna, che mi strinsero insieme in un abbraccio così spontaneo da strapparmi alla paura.
E quando vali quel tanto da far venire voglia a qualcuno di cingerti con le sue braccia, sei di nuovo un essere umano.
E così questa sera ho pianto con la targa in mano.
E non per la paura, la tristezza o il dispiacere di aver distrutto una Polo. Credo sia stato come certe volte per i neonati che piangono per farti sentire che ci sono. Che sono VIVI. A pensarci tutto torna. Perchè di guerra si tratta sempre. Tutto è andato come in quel disco. Uguale. Solo maiuscolo, perchè vissuto particolare per particolare, fuori dalle tracce di quelle canzoni, sulla mia pelle.
Fabrizio mi chiede se ho pensato a tirar fuori subito la radio.
Mio padre mi presta la macchina e ho paura di guidarla.
Enrica mi chiede se voglio un passaggio. Tiziano mi chiede se vogliamo berci su. Io resto in silenzio. Ed è lì che ho i brividi più forti. Nell'eco della bomba che insegue il vento.
Quando partono tre note di pian(t)o.
Si sa.
E' più facile
Gridare nella confusione
Che sussurrare nel silenzio.
La Jù.
Nessun commento:
Posta un commento