LA NOSTRA STRANA VERITA'

Dicono che noi donne siamo complicate. Ce lo ripetono sempre. Soprattutto gli uomini.
E' successo anche ieri sera a cena qui a casa, durante quei discorsi che si arenano davanti al solito scoglio: la complessità della natura femminile che cozza con la naturale semplicità (basica?) dell'essere maschile. Ok, siamo così, non me la sento mica di smentire. Ma nemmeno di sostenere che sia una qualità, una caratteristica di cui andare orgogliose. Questo essere complicate è una tortura prima di tutto per noi stesse. Essere donne è come camminare all'ora di punta in un viale affollato di gente, trasportando un vassoio carico di materiale esplosivo: un passo falso e salti per aria, un urto maldestro di uno sconosciuto e tutte quelle ampolline colme di ogni bendiddio tintinnano tra loro e fanno bum! Il nostro materiale esplosivo è genetico. Ce l'abbiamo dentro ed è la complessità che ci domina...quando non riusciamo a dominarla.
C'è la nostra Intelligenza, che non viaggia solo sul binario del razionale (come succede agli uomini), ma si interseca continuamente con l'intuito e le infinite sfumature di un mondo di sensazioni. E ci fa vagare in un labirinto di riflessioni ed introspezioni.
C'è il nostro Aspetto. Che ci condiziona -nel bene e nel male- per quello che promette e che non sempre mantiene. E perchè sappiamo che sarà sempre la prima causa di ogni nostra battaglia. Invitante o respingente che sia, è sul nostro aspetto che si basa il primo (a volte anche il secondo) giudizio della gente. Ma quello che si vede fuori può essere molto diverso da quel che c'è dentro. E ci conviviamo a fatica.
C'è la nostra Vulnerabilità -un simpatico dono della natura per essere pronte ad assolvere il compito materno- che si avvinghia e si scontra con la nostra forza, di cui siamo ampiamente dotate per lo stesso identico motivo (la maternità). Ma che fortunatamente ci è utile sempre. Due qualità opposte che si rivelano ogni giorno nel nostro balletto quotidiano, fatto di determinazione ostinata e insicurezze travolgenti.
Ci sono pure gli Ormoni (noi donne non ci facciamo mancare nulla). E, volenti o nolenti, ce li teniamo. Non smettono mai di mescolarsi in reazioni chimiche che un momento acuiscono quello e il momento dopo quest'altro. Gli uomini non sapranno mai che cosa significa.
C'è la nostra Voglia Di Ribellarci e di calpestare qualsiasi cosa, fregandocene di quanto sopra perchè dare retta a tutto, a volte, è sfinente. E ogni tanto si desidera solo smettere di essere sensibili, pesanti, forti o deboli. Si vuole solo passare sopra a qualsiasi cosa con la freddezza di un bulldozer, per riderci su e magari parecchio. Di tutto e di tutti. Ma non siamo mai abbastanza brave per farla diventare la nostra regola di vita.
C'è la Certezza Di Non Essere Capite che convive con la ricerca (e quindi con la frustazione) di qualcuno che abbia davvero voglia di farlo. Ma nonostante tutto questo, con questo vassoio in mano, noi continuamo a camminare tra la gente, sorridendo.
L'ho spiegato, a mio padre e a mio fratello, ieri sera: secondo voi sarà servito?


Il Solito Enorme Bacione A Tutti.

La Jù.

PACE

Insegnare a scuola mi ha messo in contatto con le verità del giorno: era come raccogliere uova appena fatte, ancora calde, magari con il guscio un pò sporco. Gli storici interrogano i secoli, ma in una classe di un qualsiasi paese italiano si ascolta il battere dei secondi.
Un giorno, una ragazza di quindici anni, un'alunna che non aveva mai rivelato una particolare brillantezza, aveva fatto una riflessione che mi aveva lasciato a bocca aperta. Eravamo negli ultimi dieci minuti di lezione, quelli che spesso mi piaceva spendere in chiacchiere con gli alunni.
La ragazza raccontava di volersi comprare un paio di mutande di Dolce e Gabbana, con quei nomi stampati sull'elastico che poi devi occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa.
Io avevo obiettato dicendole che lungo la Francesca, alle sei di pomeriggio, passeggiavano decine di ragazze vestite così. Non è un pò triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri? E da brava insegnante un pò pedante le avevo citato una frase di Jung: "Una vita che non si individua è una vita sprecata." Insomma, facevo la solita parte dell'insegnate che depreca la cultura di massa e invita ogni studente a cercare la propria strada, perchè tutti abbiamo una strada da compiere.
A questo punto mi ricordo che lei mi aveva esposto il suo ragionamento, chiaro e scioccante: "Profe, ma non hai capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro si, esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l'ho capito fin da quando ero piccola, sai? La nostra vita sarà una vita inutile. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci."
Tanta disperata lucidità mi aveva messo i brividi addosso. Avevo protestato, avevo ribattuto che non era assolutamente così, che ogni persona, anche se non diventa famosa, può realizzarsi, fare bene il suo lavoro e ottenere soddisfazioni, amare, avere figli, migliorare il mondo in cui vive. Avevo protestato, mettendo in gioco tutta la mia vivacità dialettica, le parole più convincenti, gli esempi più calzanti, ma capivo che non riuscivo a convincerla. Peggio: capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stessa. Capivo che quella ragazza che poteva essere benissimo mia sorella aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che stava accadendo nella mente dei giovani, nel nostro mondo.
A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perchè non c'è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Un tempo l'ammirazione per le persone famose, per chi era stato capace di esprimere un valore più alto- nella musica, nella letteratura, nello sport, nella politica- spingeva i giovani all'emulazione, li invitava ad uscire dall'inerzia e dalla prudenza mediocre dei padri. Grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli. Oggi domina un'altra logica: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori per sempre. Chi fortunamente ce l'ha fatta avrà una vita vera, tutti gli altri sono condannati a essere spettaori e a razzolare nel nulla.
Si invidiano i vip solo perchè si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno.
Ho conosciuto ragazzi che tenevano nel portafoglio la pagina del giornale con le foto di alcuni loro amici, responsabili di una rapina perchè annoiati. Quei tipi comunque erano diventati celebri, e magari la televisione li avrebbe pure intervistati, un giorno.
Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Francesca e un cuore pieno di desolazione e impotenza.

La Jù.



NE' VINCITORI NE' VINTI.

Ho coltivato a lungo il culto della sconfitta con un orgoglio e una superbia adolescenziale, ci stavo bene dentro ai panni della vinta, fin troppo comoda, e disprezzavo i vincitori come fossero esseri banali, prevedibili, addirittura opportunisti, sempre dalla parte del trionfo, sempre sul carro giusto, gente che mai ha assaporato il gusto agrodolce della caduta e della polvere.
Gli sconfitti mi sembravano eroi romantici, belli e dannati, schiantati nei loro ideali dall'urto contro una realtà che è per definizione mediocre e prepotente. Amavo tutta una schiera di perdenti, un pantheon in cui trovavano posto figure lontanissime tra di loro, accumunate solo dalla sfortuna: Carlo Pisacane e Paperino, Che Guevara e Vercingetorige, Bonnie and Clayde e Toro Seduto, Dorando Petri e Jim Morrison, Leopardi e la banda Bonnot, Tenco e Borromini, poeti, sportivi, rivoluzionari, musicisti segnati dalle stimmate della digrazia, pronti però ad accettare il loro destino sino in fondo, fino alla morte. La festa, le medaglie d'oro, gli allori andassero pure agli altri, a quei miserabili dei vincitori. Vincere mi sembrava da cattivo gusto, sono i padroni quelli che vincono, sono i peggiori. E' facile vincere, basta mettersi in linea coi tempi, obbedire alle regole del gioco, arraffare la posta.
Quando si è giovani si ama accanitamente la rovina, soprattutto se ciò che crolla ha la nobiltà celeste delle illusioni. Poi gli anni sono passati, e ho cominciato ad approffitare di questa posizione di lucky loser, in fondo sui ragazzi esercitava sempre un certo fascino: e allora avevo fatto partire la recita della diversa, di quella che alle feste non balla e non partecipa, che se ne sta da sola alla finestra con un bicchiere in mano e si gratta la fronte, che non entra nella mischia. All'eroismo perdente avevo fatto subentrare una sorta di vaga e improduttiva malinconia: voi altre fate, fate pure, sbattetevi a più non posso, occupate in fretta i posti migliori nella società, io me ne sto da una parte, io sono un'anima bella, ho pensieri e sentimenti che non vi sto neanche a spiegare, io ascolto Eddie Vedder e mi immaliconisco nella mia dolce e sublime sconfitta.
Quante ne ho viste di ragazze così, che magari alle spalle avevano padri e madri che lavoravano come matti per permettere alle loro esangui figlie di invecchiare in pace nella loro stagnante prosopepea di sconfitte.
Di colpo qualche dubbio è affiorato nella mia coscienza, come un delfino che salta fuori col suo muso ridente. La maturità mi ha portato nuove domande, mi ha costretto a riconsiderare ciò che pareva assodato una volta per tutte. Si può provare a vincere senza essere necessariamente delle carogne? Chi vince deve vergognarsi del suo risultato? E' per forza un conformista, un ruffiano, un furbetto? O invece a una certa età bisogna uscire da quella dimensione da "spiriti tisici", come Hegel definiva i poeti romantici, e cercare di fiorire nel mondo, di dare comunque un contributo a una società migliore? Tutto cambia superati i vent'anni, se non si vuole appassire nell'arida regione degli sprezzanti, dei nichilisti a tempo pieno, dei perdenti sempre contenti di sè.
E' stato un passaggio difficile da compiere, ma è stato un passaggio necessario per abbracciare più vita, per dare un senso e un'energia ai miei giorni.
Certo, la vincitrice contemporanea è ricca e potente, narcisista e cafona, quella che chiama i riflettori su di sè, quella che tutti invidiano e tutti vorrebbero essere: oggi la sconfitta ha perso anche il suo fascino maledetto, la sua aurea beata, e così verrebbe voglia di difenderla a oltranza.
Ma io credo che, nonostante le invidiose vincenti di oggi, dobbiamo comunque cercare di uscire dal mito della sconfitta, trasformando la malinconia in azione, senza seppellire tre metri sotto terra o sopra il cielo i nostri talenti. Bisogna saper perdere, come cantavano i Rokers tanti anni fa, ma bisogna anche saper vincere, perchè rimanere incagliati nel vittimismo e nel piagnisteo è la scelta peggiore. Ognuno dia il meglio di sè, che non è poco. E non importa se non passerò tra gli applausi e i lanci di rose sotto l'arco di trionfo, importa solo tirare su la testa e dire io ci sono, io ci provo, non voglio sconfiggere nient'altro che l'inerzia e l'apatia, la vità è grande e ci deve essere un posto anche per me, costi quel che costi.

Il Solito Enorme Bacione a Tutti.


La Jù.