#TIENIMIILPOSTO

Tendiamo spesso a mettere assieme la distanza con la solitudine. Ovvero un concetto spaziale a uno interiore. Tendiamo a pensare che andarsene, distanziarsi, sia un modo dell'abbandono, del voler restare soli, del prendersi una pausa. La distanza è una forma di solitudine, la distanza è freddezza, la freddezza è esporsi alle intemperie, è rinunciare al calore umano; quello dell'abbraccio, quello dell'esserci, del partecipare alla vita con la propria esistenza. La freddezza non è silenzio, non è distanza. Il silenzio è calore, partecipazione, è un esserci senza il verbo, senza il linguaggio, senza l'argomentare. Restammo in silenzio, uno accanto all'altro, non c'era bisogno di dire nulla, è una frase che ricorre in mille romanzi buoni e cattivi che abbiamo letto.
E vicinanza è un corpo accanto all'latro, è lo stesso campo visivo. La condivisione è la condivisione di uno spazio attorno, di un territorio, della terra, della città, del proprio mondo. Ed è per questo che la condivisione si fa interiore, perché assimila quel che c'è e lo comprende con altri.
Tutte queste parole che ho usato - distanza, freddezza, silenzio, condivisione, vicinanza, territorio, calore - hanno subito un trauma senza precedenti. Il trauma del disorientamento, quello del distacco dal luogo fisico per entrare nel mondo del web che non ha territori se non virtuali, che non ha terre comuni, che non ha condivisioni fisiche e reali.
Essere disorientati significa non trovare il modo per raggiungere un luogo, ma il web non disorienta, non indica luoghi geografici, non ha a che fare con il tempo, con la luce e con la notte, è indifferente allo scorrere delle ore, e non prevede luoghi comuni, ovvero di conoscenza comune. E' come essere astronauti che passeggiano nel vuoto dello spazio. Non c'è forza di gravità, e tutto attorno non è illuminato da nulla. E' il buio dell'universo. In questo spazio, che non è uno spazio, la distanza e la solitudine sono qualcosa che ha a che fare con il silenzio. Perché il silenzio nel web è un vuoto, è assenza. Per questo non essere sui social, non postare, non commentare, non scrivere genera spesso un'angoscia, un sentimento di paura. La paura di non esistere, di non essere più.
Non c'è niente di virtuale nello stare sui social. Questa parola abusata è un errore. Le amicizie, i seguaci sui social non sono una sostituzione irreale delle amicizie vere, dei rapporti concreti. Gli utenti stanno imparando che il linguaggio è decisamente sufficiente per stabilire connessioni che permettono comunicazione e comprensione, scambio di suggestioni e narrazioni di sé. Il punto non è il non vedersi, non si è soli perché si parla con qualcuno dall'altra parte del mondo che magari non si conoscerà mai.
Si è soli perché il web non permette il silenzio, non permette la condivisione di un luogo fisico e non permette l'orientamento. Per andare all'etimologia del termine, il rivolgersi a oriente, il trovare l'origine delle cose, il punto dove il sole sorge. Bauman ha parlato di solitudine affollata. Non aveva torto, ma non è soltanto questo. Non palesarsi sul web è un non esserci, è un farsi dimenticare, le parole sui social non hanno scie che restano, e hanno una memoria leggera, quasi inconsistente. La solitudine affollata è soprattutto una folla smemorata che scambia l'oblio con il silenzio, la distanza con il nulla, il non ritrovarsi come un'assenza di parola o voce. Il trauma è questo. Non sono i corpi che non possono riconoscersi, sono i luoghi che non si sanno dire e non si possono pensare.
Tutti i romanzi epistolari sono fatti di passioni, interiorità, ma soprattutto ricordi, memorie e passato. La condivisione è tutta nei luoghi e nei mondi attraversati assieme. Senza l'oriente non si può ritrovare niente. Senza orientarsi c'è una solitudine disperante dentro un mare di silenzio.
Per questo i social sono e diventano una droga di parole, che danno la sensazione di esserci nel mondo, senza più sapere cosa sia il mondo.

 
  CANZONI CONSIGLIATE: I lived, One Republic.
Di questi tempi la vita è lo sport più estremo.





#SANLORENZO

Ogni tanto capita.
Ignoro se succeda a tutti indistintamente o soltanto a qualcuno. Mi domando con che frequenza accada agli altri o se per alcuni, particolarmente sensibili o sfortunati, sia una condizione strutturale, con cui convivere ogni giorno.
Arriva piano, quasi impercettibile, come una marea che, all'inizio, lambisce i piedi con subdola dolcezza e poi sale, fino a raggiungere le ginocchia, la vita, la pancia, il petto, il collo, gli occhi. E ci si ritrova ad annaspare, increduli ed inermi.
Ultimamente mi sorprende spesso, questa marea infida, e ancora oggi mi chiedo se mai riuscirò a liberarmene, almeno per una volta, o se sarà sempre lì, nascosta, muta, ad attendermi dentro gli anfratti della mia quotidianità - l'intercapedine tra l'armadio e il muro, la cesta dei giornali da conservare, il cassetto delle pentole in cucina -, pronta a dilagare e a travolgermi nuovamente.
E' difficile stabilire con esattezza cosa la scateni e perché. Forse la stanchezza, i troppi sì pronunciati per incoscienza o per incapacità di dire no, una notizia che fa trasalire, una distesa di giorni uguali a lastricare il futuro prossimo, la consapevolezza delle responsabilità, un insolito, persistente mal di vivere, il desiderio che si fa urgenza di confidarsi con chi non c'è più, amici che si confidano con te in cerca di consigli e tu che non riesci a confidare loro quello che a te sta succedendo, la mancanza di leggerezza, il poco tempo, tutto questo unito alla sindrome di Pollyanna che diceva, dalle pagine dello stupido libro per fanciulle di cui era protagonista, che bisogna essere sempre felici perché esiste sempre una sventura peggiore della tua.
E' capitato ieri. E ancora boccheggio. Mi sono svegliata con la lucida consapevolezza di non farcela. "Non farcela a fare cosa?". Semplice: tutto. E, come una marea, mi ha travolta l'ansia. Ma non un'ansia circoscritta, legata ad un evento, a una prova, a uno scoglio da superare oltre il quale tirare il fiato e ricominciare di slancio. Piuttosto una generalizzata paura dei giorni a venire e delle incognite, degli affanni e delle fatiche che li riempiranno. E mi sono ritrovata in mutande, all'alba, seduta sul terrazzino, di fronte a un cielo coperto che rifletteva l'immagine di una tizia pallida, con i capelli spettinati e lo sguardo spento.
"Come siete brutte, tu e tutta quell'angoscia disegnata in faccia", ho detto io. "Sarai bella tu, sciattona tremebonda e inetta", ha risposto la disperata dentro lo specchio. Ho perso l'appetito, l'energia e la bussola, fagocitata dal mio ombelico e dal terrore di stare al mondo.
Non so se esista un antidoto, capace di scacciare quella marea che aggroviglia i sensi e li paralizza.
In mancanza della ricetta di una panacea universale anti-mostri, ho cercato la mia personale via d'uscita dalla pozzanghera di catrame. Se avessi potuto sarei scappata lontano, lasciando a casa tutto e la tizia malmostosa nello specchio. Impossibilitata alla fuga, ho deciso di chiamare un'amica, anche se non telefonavo a lei da mesi, inghiottita com'ero dallo stupido vortice dei miei affanni. "Ehi, ciao. Come stai? Io non mi sento molto bene. Ti va se ci vediamo e ti racconto?". Ha detto di sì.
La tizia pallida si è messa il rosso e le lacrime sulle guance, ha domato i capelli spettinati e si è data una calmata, per gratitudine verso quel sì e per amor proprio.
E ha funzionato. Avere accanto propri simili, preferibilmente coetanei, anch'essi periodicamente lambiti da quella stessa marea, è un efficace antidoto. Riconoscersi, condividere lati oscuri e luminosi delle rispettive esistenze, ritrovarsi uguali nelle paure e nelle energie, devastati e splendidi nell'arco di una stessa giornata, è un toccasana portentoso.
Perché a volte, nello specchio, oltre alla propria immagine stropicciata e atterrita, è necessario scorgere quella altrui, così simile e confortante da farti da zattera e metterti al riparo da ogni marea.


   CANZONI CONSIGLIATE: La donna cannone, Francesco De Gregori + Non importa veramente, Niccolò Agliardi.
Ma io bacio ancora le ferite, per far andare via il dolore, anche se ormai non credo più che faccia effetto.