L'ULTIMA RIGA DELLE FAVOLE

Non ricordo cosa stessi facendo quel giorno.
So che era un giorno qualunque per milioni di persone, alle prese con la vita fatta di lavoro, sorrisi, lacrime, sport, belle notizie, altre brutte. Un amore che nasce e uno che finisce, il primo bacio, un compito in classe andato male, un altro andato bene, una serata al cinema.
Attimo dopo attimo, respiro dopo respiro.
Un giorno qualunque, non per me. Quel giorno della mia prima vita per me sarebbe stato l'ultimo.
La lancetta dei minuti e delle ore passa, i giorni diventano mesi e i mesi, anni. E io sono ancora qui.
Vento leggero ma fa freddo. Alcune anzine passeggiano tranquillamente, un cane al guinzaglio, un gruppo di bambini in bicicletta. Li guardo. Poi sposto gli occhi altrove e sospiro.
Lui era la persona con cui credevo di passare il resto della mia vita. E io troppo grande per piangere, troppo piccola per perdere un amore.
Qualche fotogramma impresso nel cuore e nella memoria, qualche sguardo, il suono lontano della sua voce, mentre mi accarezzava o mi sussurava di passargli l'acqua. Il suo amore per me, quello sì, lo ricordo bene, mi è rimasto dentro. Lo sento e mi accompagna ogni giorno.
Ho conosciuto la nuova Jù nei racconti di mia madre, una gigante lei. Si è presa sulle spalle una come me, distrutta, sfinita e sfiduciata e mi ha accompagnato nellla mia nuova vita, da sola.
Ho conosciuto la nuova Jù nei racconti delle mie zie, nei ricordi di chi mi ha voluto bene anche quando me lo meritavo meno, che l'ha vista milioni di volte negli occhi e nell'anima, che l'ha frequentata, che sapeva leggere i suoi sguardi.
Ho conosciuto così una ragazza normale, con i suoi difetti, i suoi pregi, il suo sorriso, quello sì.
Sono cresciuta al Nord ma il mio cuore è maturato a Sud, perchè ho sempre seguito quel respiro latente della mia anima per essere diversa, per continuare a vivere. Perchè questo continuo a fare, più o meno consapevolmente, nel corso della mia vita. Ho cercato di vivere e far vivere il meglio di me.
Molti mi chiedono come sia perdere un fidanzato, se ho mai odiato Dio, se ho conservato qualcosa di lui, se ho perdonato, se. Quel giorno è stato e io non posso farci nulla. Non posso dimenticarlo perchè da quel giorno in poi la mia vita non è stata più la stessa, perchè certe cose ti vivono dentro per l'intera esistenza, fino alla fine.
Non posso dimenticarlo ma sono andata oltre, sono cresciuta, potevo ancora vivere e l'ho fatto.
Molti si sono riempiti la bocca di parole su di me senza conoscermi. Mi hanno descritto con superficialità, mi hanno distrutto, svestendomi del mio abito di ragazza. Molti mi ricordano spesso che lui non c'è più mentre a me a volte mi rincuora ricordarmi come mi ha amata in quei mesi, per farlo vivere ancora un attimo.
Il tempo poi, fa sempre il suo lavoro. Scioglie nel suo scorrere la patina in superficie e lascia emergere quello che c'è sotto.
Quando sei una ragazzina non hai la maturità per capire certe cose, non hai l'esperienza per governare gli impeti della tua anima, vivi tutto intensamente, senza moderazione. Vorresti tutte le attenzioni per te, vorresti che tutti capissero, che tutti ti ascoltassero, che tutti ricordassero.
Poi cresci e comprendi che nulla si ferma, nessuno ti aspetta. Che ognuno è impegnato nel difficile compito di vivere la propria vita, la propria storia. Magari si allontana, si distrae, ma non per questo ti lascia solo oppure dimentica. Basta un incontro, uno sguardo, un sorriso per capirsi di nuovo e dare il senso giusto ai comportamenti e alle persone.
A volte ho avuto la sensazione di essere un errore.
La sua assenza è stata enorme.
Ha significato una sedia vuota il giorno del mio compleanno, quando con lo sguardo cercavo quello che non potevo più avere. Ha significato non avere un porto sicuro di cui una ragazza ha bisogno nelle avventure della vita, nei tentativi di diventare donna. Sentirsi stringere forte al petto per non andare via, festeggiare insieme la vittoria dell'Italia ai mondiali, giocare a bowling e vederlo preoccupato per me. I rimproveri, i consigli, gli incoraggiamenti.
Di lui, per un pò, mi è mancato tutto. Un amore col contagocce che non ha avuto la forza colorata di un amore che dura per tutta la vita.
E' un pensiero latente che riaffiora ogni volta che arriva il brutto tempo e che ti lascia, per un attimo, nell'illusione che nulla sia cambiato.
Adesso continuo a crescere, i miei amici, il mio lavoro, ma ogni volta che mi fermo accade qualcosa di strano: ho la sensazione di non essere un errore, ho la sensazione di essere viva.
Una sera ero a cena con mio cugino al quale stavo raccontando gli enormi sbagli fatti, le difficoltà, i dubbi, la mia vita insomma. Mi guardò e sorrise, dicendomi di non aver paura di fare la mia strada, di cercare il mio equilibrio, di fare quello che sentivo perchè "avrai il tempo per tornare indietro, se lo vorrai."
Non è stato facile perchè la vita non è un film, come diceva qualcuno.
Molta gente si è rimpieta la bocca di parole, ha fatto finta di ascoltare e poi ha girato le spalle lasciandomi sola. Ma poi ho incontrato tante belle persone, ho scoperto nuovi amici che hanno saputo starmi accanto, che hanno scelto di ascoltarmi senza mai illudermi. Loro hanno imparato a conoscermi e a volermi bene come Jù e non come "la ragazza di".
Ora sono più tranquilla, quel demone smanioso che mi vive dentro sembra riposare un pò e ho avuto voglia di scrivere un pò di più questa sera. Ho voluto raccogliere un pò di pensieri e ricordi, ascoltarmi.
Ho voluto scrivervi ancora una volta di me, di come sono stata in una vita precedente, senza eccessi, senza invenzioni, senza lapidazioni inutili.
Ho voluto raccontarvi quello che per tutti è stato un periodaccio, mentre per me, è stata l'ultima riga delle favole.


IlSolitoEnormeBacioneATutti.

Jù.

CUORE IMPERFETTO

Ciao nonno,
lo so, non credere, lo so che cosa stai pensando: "Ma che cosa è saltato in mente a mia nipote di scrivermi una lettera! Perchè mi tormenta? Lo sa che voglio essere lasciato in pace. Non chiedo niente, mai chiesto niente a nessuno".
E' vero, lo so che cosa vuoi. Lo sai fin troppo bene tu, e da un certo momento in poi hai deciso di farti da parte. Niente domande, pochi consigli. Ti sei sforzato di accettare, anche se troppo tardi, il mio modo di essere, continuando a volermi bene come sapevi, come potevi.
Ma questa lettera non la scrivo per parlare di te. Questa lettera la scrivo per parlare di me.
Vorrei parlare di Jù, seconda figlia di genitori non più giovani che l'hanno cresciuta come un fiore raro, che hanno voluto per lei il panino a merenda, le vacanze al mare e sogni abbastanza ambiziosi.
Così ecco che Jù si ritrova in una bella casa, un giardino quasi enorme e, finalmente, un computer.
Jù è una tipa strana sin da piccola. A sei anni si lava e si veste da sola. E' testarda, ogni mattina si impunta, vuole mettere gli stessi jeans, la stessa maglia, le stesse scarpe. E' un problema lavarli e farli asciugare per il giorno dopo. E' un problema sostituire le scarpe vecchie con un paio identiche.
Avevo più o meno undici anni, nonno, quando ti sono scappata di mano, nessuno è più riuscito a capire cosa succedeva nella mia testa. Stavo pomeriggi interi rinchiusa in camera mia, da sola, a smontare e rimontare puzzle, una passione partita da una scatola di cinquecento pezzi arrivata a Natale da uno zio.
E tu? Tu per un pò ti sei illuso di essere indispensabile alla mia crescita. Ma papà c'era poco e quando c'era, leggeva. E io, era come se non ci fossi, o peggio come se facessi finta che nessuno ci fosse.
"Dove ho sbagliato?" E' questa la domanda che mamma ha fatto al dottor Poloni la prima volta che si è seduta davanti a lui, nel suo studio giallo e colmo di libri che all'inizio mi metteva a disagio. Da Poloni ci sono andata per un anno di fila, tutti i giovedì alle quattordici e trenta, quarantacinque minuti alla settimana.
Era come salire su uno di quei montacarichi che affondano nelle viscere delle miniere. Un viaggio nel buio, a cercare con il lanternino le mie colpe, i miei errori. Chiedevo a Poloni continue conferme sulle domande che come bolle salivano a galla, spiavo la sua faccia ed ero convinta che mi considerasse una pazza.
Il dottore non parla. Non parla mai. Parlo solo io. In un anno ho sentito la sua voce solo quando mi diceva "Buongiorno, si accomodi" e "Ci vediamo giovedì prossimo". Eppure anche quel silenzio è servito. Questo blog, a pensarci bene, e il coraggio di scriverlo, lo devo anche a lui.
Adesso capirai meglio perchè.
I pazienti di un analista non si incontrano tra loro nella sala d'attesa. O almeno così è successo a me. Tutte le volte aspettavo il mio turno in una stanza, con la porta chiusa. Da mesi, mentre me ne stavo lì, a volte impaziente di entrare, a volte con la voglia di scappare via, sentivo la voce dell'uomo che prima di me sedeva sulla poltroncina davanti a Poloni. Una voce fonda, molto pacata. Una bella voce. Di quell'uomo intravedevo anche la sagoma attraverso il vetro smerigliato della porta chiusa. Alto, dai movimenti fluidi e lenti come la sua voce.
Un giorno, sono in ritardo sull'orario della seduta, aspetto trafelata l'ascensore e appena la cabina si ferma sul pianterreno apro con impeto la porta e quasi investo il paziente bella-voce. Non ho dubbi che è lui. Istintivamente lo saluto e gli dico qualcosa del tipo "Adesso tocca a me".
Lui capisce al volo e sorride. Sorrido anch'io. E' così che ho visto papà, tuo figlio, in veste di paziente.
Tutto questo accadeva più o meno due anni fa.
Poi ho deciso di buttare all'aria la mia vita così regolare e programmata. Ho sofferto. Abbandonata nella mia stanza bunker, arrabbiata per essere "diversa".
Io non parlavo con nessuno, ma parlavo con me stessa, non ho mai smesso.
Mi ricordo quando attraverso la porta chiusa della mia stanza facevi commenti ad alta voce o ti affacciavi con una scusa. Io non rispondevo mai, ma ascoltavo. Macinavo, ragionavo e le mie rare battute penso ti facessero capire che dietro quell'atteggiamento scontroso si nascondeva una grande tenerezza.
Tu mi hai accolta come una benedizione. E io ho considerato un regalo del cielo l'amore che tu mi hai dimostrato ogni giorno, senza nessuna sottrazione.
La vita che avevo scelto fino a qualche tempo fa era piena di rinunce. Ero sola, non avevo amici, avevo perso un compagno, non credevo nell'amore. Erano rinunce grandi, rinunce che non portano da nessuna parte se non a un isolamento che con gli anni avrebbe rischiato di essere assoluto.
Ho avuto paura della tua morte, più di quanto ne abbia della morte stessa, perchè sapevo che quando non ci saresti stato più, non avrei più potuto contare sui tuoi preziosi insegnamenti.
Nonno, io non posseggo nulla. Non ho beni personali, se non un telefono e i regali dei miei amici ma sai qual è stata la vera ricchezza? L'umiltà che mi hai insegnato. La mia eredità è questa.
Ti abbraccio forte, ovunque tu sia.

Jù.

L'AMORE PER CASO

E' cosa arcinota, ai confini con la banalità, notare come in amore la contraddizione ( e il sacrosanto diritto alla medesima ), i magoni di ogni tipo, le impennate della logica siano nutrimento quotidiano. Comunque a me pare che la più cocente, tra le infinite frustazioni in campo sentimentale, sia la consapevolezza che l'amore non è soltanto cieco, sordo e dotato di gravi turbe anche a livello neurologico, ma soprattutto è di una superficialità mostruosa: l'amore è scemo. Non sceglie mai: capita. A tutti, eh: in questo senso non credo si debbano fare distinzioni tra uomini e donne, omosessuali ed eterosessuali.
A ognuno di noi è capitato almeno una volta nella vita di ritrovarsi a dire a qualcuno, con tanto di "vibrato" nella voce: "Guarda io mi detesto, te lo giuro, non so cosa darei per innamorarmi di te, perchè tu sei perfetto, capisci? per me, almeno...Sei la persona più bella che conosco, mi piace tutto di te, le tue idee, la tua sensibilità, e poi con te sto bene, so che mi posso fidare, che mi capisci, con te risco a parlare" "E allora capisci che sto malissimo, non riesco a farmene una ragione, ma mi spieghi perchè è andata cosi? perchè mi sono innamorata di te, anzichè di quell'infame che mi rovina la vita?.."
Perchè l'infame in questione è bello. Tutto qui. O se preferite, perchè mi piace da impazzire, mi fa andare il sangue alla testa, quello che vi pare. Fatto sta che quella cosa lì - la passione il delirio l'innamoramento - è esattamente come la grazia santificante per i cattolici: o c'è, o non c'è. Non serve a niente far valere la ragione, la mozione degli affetti, valutare tutti i lati positivi, le affinità elettive, tutti gli elementi per cui una persona sarebbe perfetta come compagna di vita, niente: l'amore capita.
Io credo di aver toccato il fondo parecchi anni fa, quando mi sono resa conto che quello di cui mi ero innamorata non solo mi faceva stare male, ma non mi era neanche simpatico. Ma come si fa a ridursi così? Come è possibile una roba del genere? Poi, certamente, ogni tanto nella vita ti capitano delle botte di culo. E dopo, solo aver perso comunque il senno, il sonno, la ragione e i sentimenti per qualcuno, ti rendi conto che quella lì è anche la persona giusta, anzi, perfetta per te. E allora alè, felicità a mille, festeggiamenti, dichiarazioni di fedeltà. E magari, in questo tripudio ormonale, in questo delirio adrenalinico, hai anche la divina impudenza, l'infinita sfrontatezza di andare dalla tua amica bruttina e dirle: "Ah guarda che sto vivendo questo amore meraviglioso ma sono sicura che succederà prestissimo anche a te..." Che schifosa bugia. Che disgustosa ipocrisia. Lo sappiamo tutti perfettamente - lei per prima - che a lei non succederà mai una cosa del genere, perchè l'amore ha ferree leggi di mercato, e chi è tagliato fuori peggio per lui. A lei, con tutte le sue belle qualità, succederà probabilmente di perdere la testa per uno che non la vedrà nemmeno, perchè è tanto bella dentro, ma neanche a rivoltarla se ne accorgono. E lei - lei sì- a un certo punto dovrà mettersi a tavolino, ragionare, decidere, piuttosto che invecchiare completamente sola, di mettersi con uno come lei, senza passione ma con tanti lati positivi, tante belle qualità, tanto bello dentro anche lui, e insieme si faranno delle fantastiche endoscopie: ma la felicità no, niente, negata. Perchè l'amore non è affatto cieco, anche se a Sanremo spopola da un sacco di tempo; semmai è stupido, superficiale, ingovernabile e si lascia condizionare dalle mode, dai modelli estetici dominanti, dall'apparenza, dagli spot.
L'amore è cieco. Ma chi l'ha detto?

Il Solito Enorme Bacione a Tutti.

Jù.

PIU' MUSICA E MENO TESTO

Primo pensiero.
Mia madre mi mise al mondo alle tre e un quarto di una gelida notte primaverile. Pioveva. Mio padre aveva atteso nervoso per tutta la sera, camminando su e giù e fumando furiosamente. Pare fossi bellissima, anche se la mia testa era di colore bluastro e il mio umore pessimo. Vai a credere al parere di due genitori innamorati. Quel giorno cominciava la nostra avventura, la mia di bimba rumorosa che "potrebbe fare di più a scuola", la loro di genitori affettuosi, ma spesso perplessi sulle mie reali intenzioni ed aspirazioni nella vita.
Con il cuore sento di doverli ringraziare per l'audace scommessa che decisero di fare dandomi la vita.
Con la mente mi verrebbe voglia di sgridarli per non avermi fatto nascere nel selvaggio Far West invece che nella civilizzata Bergamo. Sì, perchè io mi sentivo molto più portata per cavalcare nelle praterie, che non per correre in bicicletta lungo la via Provinciale; molto più portata per allenarmi a sparare ai barattoli di conserva nel prato sul retro del ranch, che non per allenarmi a fare sedici vasche a dorso tutti i lunedì mercoledì e venerdì alla piscina del Centro Consortile; molto più portata per gestire un saloon dove si servissero anche vodka e caipirinha e dove si esibissero anche ballerini stranieri, che non per lavorare anni e anni senza vedere mai nè un euro fetente nè un qualcuno interessato alla cultura decente; molto più portata per diventare sceriffo e magari battermi contro l'impiccagione per furto di cavalli e contro l'intolleranza verso i pellerossa, che non per diventare socia di un circolo arci o di una cooperativa che lotta per non so bene cosa.

Secondo pensiero.
Sono laziale. Lo sono per parte mia. Anzi, per parte di cugino.
Mio cugino tifava Juventus da quando si chiamava come si chiama ( non la squadra, lui). E fu lui, fin dalla mia più tenera età, ad educarmi ai principali valori della vita e dello sport: l'onestà, la correttezza, il rispetto degli altri, il rispetto della parola data, l'affetto per Alen Boksic. Con mio cugino commentavamo le partite, con il cugino valutavamo la campagna acquisti, con il cugino iniziai ad amare il Boksic biancoceleste, con il cugino presi la mia prima pallonata triste in faccia.
Con il cuore gioisco per tutto ciò che il cugino mi ha lasciato dentro, per quei momenti di complice felicità, per le sue passioni spicciole che proseguono con me, per tutti gli insegnamenti buoni che mi ha dato; gioisco perchè, senza troppi pudori, gli voglio bene e continuo a volergliene ora che non lo vedo più così spesso.
Con la mente mi domando invece per quale diavolo di motivo io debba continuare ad essere laziale in provincia di Bergamo. Non ha alcun senso essere laziale in provincia di Bergamo. A meno che non si ami la sofferenza per partito preso: sono mortificata quindi esisto. Ma ammesso che io accetti il mio destino, con la mente lavoro e mi pongo continuamente (soprattutto di notte) quesiti angoscianti. Perchè la Lazio perde sempre e se non perde pareggia e se non pareggia vince ma non convince e se vince e convince poi perde di nuovo? Perchè Rocchi e Klose hanno solo figlie femmine e se avranno figli maschi non gli insegneranno quello che sanno fare? Perchè di tanti olandesi che ci sono in Olanda il Milan riesce sempre a trovare quelli che sanno giocare a calcio e lascia tutti gli altri all'Inter? Perchè il cugino non tifava per il Genoa?

Terzo pensiero.
Il mondo fa piuttosto schifo. Molte persone soffrono più del dovuto. Ci sono troppi disoccupati, troppi morti di fame, troppi violenti che abusano materialmente e moralmente della debolezza altrui. La volgarità dilaga. La furberia è ancora tanto vincente. Il mare è sempre più sporco, l'aria sempre più puzzolente. Molti bambini non hanno giocattoli, pochi ne hanno troppi, ma tutti i bambini diventano sempre più tristi. Gli adulti lo sono già.
Con il cuore sento che non è giusto, che si potrebbe cambiare, che si dovrebbe fermare il dolore, isolare la violenza, costruire un mondo sereno, che rispetti la vita, la gioia, che dia del tempo alle persone per pensare, per fare l'amore, anche per non fare assolutamente niente, almeno sporadicamente. Perchè è bellissimo non fare assolutamente niente, stare sdraiati, guardarsi le unghie dei piedi, contarsi i foruncoli, infilarsi le dita nel naso, fissare un punto nel vuoto, guardare il mare, guardare gli altri passare, rispondere a chi ti chiede che stai facendo "niente"... perchè è bello non fare niente, almeno sporadicamente.
Ma con la mente non riesco a pensare a nulla di serio, di concludente, di efficace, di non irrimediabilmente destinato al fallimento.
Penso con la mente, ma ho davvero bisogno del cuore.
Finchè regge.


Il Solito Enorme Bacione a Tutti.

Jù.

BRACCIOFORTE

L'ha conservato a lungo nella cassetta dei documenti, quel foglietto che certificava il suo battesimo di volo ottenuto il 20 luglio del 1936, quando aveva appena sei anni e il padre Stephen Koening Armstrong, ispettore contabile statale, e la madre Viola, entrambi di origine tedesca, uscirono dalla loro casa di Wapakoneta, nell'Ohio rurale, e lo portarono sul Tin Groose ( "Oca di latta") nomignolo affibiato a un aereo trimotore prodotto dalla Ford.
Fu il suo primo volo, un imprinting che gli inoculò quella passione per l'aviazione che non l'avrebbe più abbandonato: difficilmente all'epoca qualcuno poteva immaginare che un giorno, quel ragazzo, Neil, sarebbe arrivato sulla Luna, con il simbolo di un'aquila al posto di un' oca.
Per una incredibile coincidenza, fu nella notte di un altro 20 luglio, questa volta del 1969, mentre sulla Terra Eddy Merckx trionfava nuovamente al Tour e la Fiorentina si aggiudicava lo scudetto, in Francia se ne andava Charles De Gaulle e in Vietnam le bombe al napalm polverizzavano le colline, che Neil Armstrong passò alla storia come il primo uomo a toccare il suolo lunare. Lo toccò dapprima con lo scarpone sinistro, e ci restò per 151 minuti rimbalzando come un gigantesco bambino che muove curioso i primi passi, inviando alla Terra e ai 600 milioni di persone sparse nel mondo davanti a un televisore la frase più famosa che un essere umano abbia mai pronunciato:
"E' un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l'umanità".
Ora che il corpo di Neil, dalla sua Cincinnati, ha lasciato per sempre la Terra a 82 anni, molte delle cose che avremmo voluto sapere su quello straordinario viaggio e su quella famosa frase se ne sono andate con lui.
Di tutti gli astronauti del progetto Apollo, che inviò sei equipaggi umani sulla Luna dal 1969 al 1975, Armstrong è stato il più sfuggente. Alto, di bell'aspetto, pronto al sorriso, ma il più riservato e misterioso.
L'uomo che il presidente Obama in un messaggio alla moglie Carol ha definito "uno dei più grandi eroi americani di sempre", avrebbe potuto arricchirsi tenendo conferenze o concedendo interviste esclusive, ma era difficile cavargli più di qualche parola tecnica sullo sbarco che lo ha reso l'astronauta più celebre della storia (insieme ai compagni di viaggio Buzz Aldrin, secondo moonwalker, e Michael Collins, nato a Roma, conducente del modulo orbitante che ruotava attorno alla Luna).
Si limitava a pochi dettagli operativi e chissà se si ricordava, a distanza di 43 anni, del "coccodrillo" che aveva preparato per loro il presidente Richard Nixon nel drammatico caso in cui gli astronauti della missione Apollo 11 non fossero riusciti a ripartire dal nostro satellite: "Il destino ha voluto che gli uomini che sono andati sulla Luna per esplorarla in pace rimarranno sulla Luna per riposare in pace".
Anni dopo, aveva fatto leggere quelle righe alla prima moglie Janet per poi bruciarle. Prima di partire aveva usato parole più comuni con i figli Ricky e Mark.
I suoi silenzi, il suo volto con la barba incolta di otto giorni che si affaccia dall'oblò della navicella appena recuperata nelle acque del Pacifico, a guardare senza un sorriso dall'altra parte del cristallo Nixon, ne hanno fatto un eroe schivo e malinconico, che rifiutava persino di firmare autografi.
Fra le poche riflessioni non tecniche che Neil ripeteva spesso era come da lassù gli era apparsa la Terr: "Riuscivo a vedere i continenti e le nuvole. Mi sembrava tanto piccola e bellissima".
In generale preferiva pensare al futuro più che al passato. Il suo grande sogno era Marte. Naturalmente, sapeva che non sarebbe toccata a lui quell'avventura, ma nei vari ruoli dopo il viaggio lunare e il ritiro dalla amata Nasa nel 1970 non perdeva occasione per parlarne come della prossima frontiera.
Chissà se adesso che lui non c'è più, Buzz Aldrin (che voleva essere il primo moonwalker e che per questo fece con Neil una feroce litigata, da Neil mai ammessa) riuscirà finalmente a perdonargli di non essere stato il primo a mettere piede sulla Luna.
Quasi ad annunciare il lutto, la bandiera americana che Neil e Buzz avevano conficcato nelle sabbie del Mare della Tranquillità dopo l'allunaggio dell'Apollo 11, non è più in piedi.
Tutte la bandiere della altre missioni ( sei in tutto, fino al 1972, compresa quella disastrosa dell'Apollo 13 nel 1970) sono ancora al loro posto. Ma è sempre lì l'iconica impronta del piede di Armstrong impressa nel pulviscolo della superficie lunare, potrebbe restarci per un milione di anni, perchè sulla Luna non ci sono venti che possono spazzarla via.
Grazie Neil, ti sia lieve la Luna.

Il Solito Enorme Bacione a Tutti.

La Jù.