#equivaleallimmenso

Un non-lettore mi ha scritto una email. E' incimpato casualmente su un mio post, ma non compra libri, non compra giornali. Però scrive, alimenta un "blog da poeta-artista": "Credevo che il mondo fosse una favola...hanno sempre tentato di rendere razionale la realtà...per fare del mondo il migliore dei mondi possibili. Purtroppo senza riuscirci..." Scrive partendo da una canzone di Max Pezzali scelta come epigrafe: L'universo tranne noi. Tutti abbiamo storie di illusioni e disillussioni vittorie e sconfitte, corse e cadute, gioie e tragedie. E possiamo fare "riflessioni crude sul mondo di oggi", come Giuseppe il non-lettore, che si riferisce agli altri come "altro", come se lui non ne facesse parte. Il suo affermare che non acquista nè giornali nè libri -dunque non parrebbe interessato alle ragioni altrui- credo trovi un contraltare nel racconto di David Grossman al giornalista Edoardo Vigna. Un giorno, a Gerusalemme, il bus per israeliani su cui viaggiava si ferma a fianco di quello per palestinesi. Guarda dentro e si accorge che è pieno di volti mai visti realmente. "Ero programmato per "non vederli". A non riflettere sul fatto che i palestinesi fossero "rilevanti" per la mia vita. Invece ciò che facciamo è cambiare la loro vita in modo terribile. Ma allo stesso tempo ho capito che neanche loro mi vedevano. Con il tempo, questo "non vedersi" è diventato odio reciproco". Grossman non è lo scrittore di successo a cui tutto va d'incanto, uno dell'Universo da cui, secondo l'epigrafe di Max Pezzali e l'idea di Giuseppe il non-lettore, noi siamo esclusi. Discende da scampati alla shoah. Divenuto adolescente ha scoperto che i personaggi incontrati nei libri letti da bambino, abitanti del mondo incantato dei nonni nel cuore dell'Europa, erano finiti nel vento, come nella canzone di Guccini. Vive da sempre in un Paese dove se hai due ragazzi li mandi a scuola su autobus diversi, così se ne fanno saltare in aria uno, l'altro resta vivo. Infine, diventato abbastanza grande per fare la leva, suo figlio Uri è stato centrato da un missile anticarro nel Sud del Libano. Eppure il messaggio di David Grossman è: "L'incapacità di credere in una situazione migliore è l'inizio della sconfitta". Il nostro male, personale e dell'intera società, è il cinismo, "modo crudele con cui ci chiamiamo fuori dalla vita. I cinici ridicolizzano tutto e si dicono incapaci di cambiare le cose". Credo sia un male congenito, anche se non di tutti. Sbaglia Giuseppe il non-lettore quando si tira fuori dal mondo e quando parla di questo tempo e di questo luogo come fossero differenti -e peggiori- di altri tempi e di altri luoghi. Se la sua è una provocazione, è riuscito nell'intento. Anche se non mi leggerà, grazie per avermi spinto a riflettere.


   LIBRI CONSIGLIATI: Messaggio per un'aquila che si crede un pollo, Anthony De Mello + Bianca come il latte, rossa come il sangue, Alessandro D'Avenia.
I libri non possono alleviare quella sensazione di disperazione che la crudeltà del mondo ti mette davanti ma possono farti sentire meno solo. 
 

#PapàDicevaSempre

Ogni tanto mi capitava. Certo, non succedeva spesso nè facilmente e neppure con tutti. Però, quando accadeva, era una meravigliosa epifania. Di quelle che accendono la mente e scuotono anche un pò la pancia, di quelle che risvegliano lo stupore e la meraviglia, di quelle che fanno sentire vivi e danno un senso più alto al nostro andare. Quando accadeva, era un brivido, una scossa di felicità. E l'amore, la passione, il desiderio non c'entrano, almeno non nella loro accezione classica.
Mi capitò una volta, ricordo, in seconda elementare.
La maestra ci stava spiegando i modi e i tempi verbali. "Modo indicativo, presente, imperfetto, passato remoto, futuro semplice...Bello, no?". Non era bello, pensai, nel furore esaltato dei miei sette anni. Era straordinario. Imparavo che i verbi possedevano una loro magica armonia. E se la possedevano i verbi, che in qualche modo governavano il mondo, dovevano per forza possederla anche le nostre vite. Fui grata alla signora Lia, la mia maestra, che, generosamente, aveva aperto per noi - o, nel mio egocentrismo bambino, solo per me - uno scrigno prezioso, colmo di informazioni segrete e fantastiche. Mi successe nuovamente al cospetto dello schema dell'analisi grammaticale, anch'essa meravigliosamente ordinata e prevedibile, dietro una maschera di caos apparente.
E poi, ancora, alle medie, quando un'illuminata docente di scienze ci raccontò, con gli occhi sgranati dal suo stesso stupore, come funzionavano gli atomi e le molecole.
Per cinque anni di liceo ebbi un'insegnante straordinaria che distribuì perle inestimabili che, da qualche parte, conservo ancora. Me ne innamorai quando leggemmo insieme I cavalieri della Tavola Rotonda e quando, grazie a lei, scoprìi che nel latino avrei trovato radici, spiegazioni e chiavi per capire me stessa. Il brivido tornò un paio di anni dopo, durante una lezione di filosofia sulle idee platoniche, concetto, ai miei occhi di allora, tanto discutibile quanto ipnotico.
Si trattava di fugaci lampi, a rischiarare di rado un monotono grigiore, reso tale dal claustrofobico e ineluttabile senso di coercizione della scuola. La potenzialmente sublime pratica dell'istruzione era inquinata e compromessa dall'odioso aggettivo "obbligatoria".
All'università (che non ho mai finito) quando nulla era più obbligatorio, fui guidata dal criterio dell'utilità, più che del diletto o dell'interesse. Così studiai, controvoglia, materie che detestavo, perdendo un'immensa occasione di piacere, oltre che di crescita.
La vita, poco dopo, mi travolse e, lungo la strada, almeno per un pò, persi memoria di quella sete e del piacere di soddisfarla. Ci sono tuttavia languori che non si placano mai del tutto e fuochi che continuano a bruciare, sotto le braci. Sette anni fa, nonostante il lavoro, gli antidepressivi e parecchia fatica, quella sete si fece inquietudine che, a sua volta, si fece urgenza. Tornai a scrivere. Ogni giorno, tutti i giorni. E poi feci un piccolo corso di scrittura creativa. E ritrovai immediatamente la stessa fascinazione irresistibile che un tempo mi regalò l'armonia dei modi e dei tempi verbali, la sorpresa di un mondo che si chiude per te, il godimento di pendere dalle labbra di qualcuno e sentirsi al centro. Ero felice, ogni sera, quando mi mettevo a scrivere, di una felicità diversa dalle altre, di una felicità che, dopo, ti fa sentire migliore.
E poichè la felicità dà dipendenza, oggi ci sono ricascata. Mi sono iscritta a un corso di dizione e di fonetica (che ha la "e" aperta) perchè è un altro modo di conoscere le parole. Il giovedì sera, due ore, in un sottoscala che sa di umido. Di nuovo a scuola, di nuovo quel brivido, di nuovo quella felicità.
Tutto questo è per dire che ogni tanto, ogni tre anni per esempio, concedersi qualcosa da imparare - qualsiasi cosa: dal kamasutra alla stenografia, passando per il tip tap oppure per la cucina cubana - è una cosa che fa bene, come la frutta, la verdura, l'esercizio fisico e l'aria di mare.


   LIBRO CONSIGLIATO: Il gusto proibito dello zenzero, Jamie Ford.
A scuola, ho imparato la felicità. 
Non si cambia, si cresce. E c'è una bella differenza.


 
 

#PAROLEINCIRCOLO

Mi prendo subito una 

PAUSA PUBBLICITARIA
Guardate Fino a qui tutto bene, di Roan Johnson e leggete Quando siete felici, fateci caso, di Kurt Vonnegut (Minimum Fax).

Hanno cose in comune. Johnson è cresciuto a Pisa da padre inglese e madre lucana. Vonnegut a Indianapolis da famiglia di origini tedesche. Entrambi sono autoironici. Il primo dichiara "una laurea, un diploma al Centro Sperimentale e un dottorato di ricerca che non gli ha chiarito le idee".  Il secondo ricorda: "La facoltà ideale per me sarebbe stata una pseudoscienza con uno status sociale superiore ad astrologia, meteorologia, coiffure, economia, imbalsamazione".
Il film parla di cinque fuori sede arrivati alla fine degli studi, costretti pertanto a smontare la casa comune e imbarcarsi nel viaggio verso l'ignoto che è la vita adulta. Il libro è la raccolta di discorsi tenuti da Vonnegut ai neolaureati  di varie università americane dove queste concioni a una folla in tocco e toga sono una tradizione. Da noi non si usa. E non credo che, se anche così fosse, mi inviterebbero mai su un palco. Nel caso queste due eventualità dovessero verificarsi, scoraggerò chiunque anticipando quel che direi. 

Laureati e laureate, 
siete fregati. Credevate che la notte più inquieta della vostra vita sarebbe stata quella prima degli esami. E invece no: mai fidarsi delle canzoni, nessuno convinto delle proprie parole ci metterebbe sotto una schitarrata. La notte più difficile è quella dopo gli esami. Perchè al fondo ti devi alzare e inventarti un'esistenza. 
Avete davanti a voi qualche strada e un pugno di obiettivi. Fondamentalmente tre. Inseguirete i soldi, il potere o l'amore. Uno su cento di voi otterrà una su tre di queste cose. Se inseguite i soldi, avrete almeno tre momenti in cui li dareste tutti per qualcosa che non si può comprare. Nè soldi nè potere sono il male in sè, come sostiene qualche moralista spiantato: dipende dall'uso che se ne fa.
Anche l'amore non è il bene in sè: dipende dall'uso che se ne fa. Comunque: preparatevi a sposarvi più di una volta. Se vi limiterete a convivere, preparatevi ad almeno tre unioni ( l'obbligo di alimenti, non la solennità della formula, fa da zavorra). 
Non prendetevela con il lassismo della società o la trappola della famiglia, è colpa della scienza: viviamo troppo, in salute troppo a lungo. Quando inventarono il matrimonio, tra guerre, pestilenze e carestie, la durata media era 4 anni e mezzo: fin lì son capaci tuti. Da lì in poi le possibilità di un matrimonio per scelta o combinato sono le stesse: la differenza la fa l'impegno. Poi ci sono i miracolati, ma stanno a casa loro e si tengono il segreto.
Inseguirete uno o più sogni. Può darsi che ne realizziate uno, due o nessuno. Quel che vi posso dire è: non lagnatevi. Non pensate mai che la vita sia ingiusta. E' un alibi. 
E' vero: ho visto qualche pezzo di somaro fare strada per la sua capacità di relazionarsi (essere ruffiano). E qualche mezzo genio sottovalutato per le ragioni opposte. 
Ma nella stragrande maggioranza dei casi ognuno arriva dove può e deve, gradino più gradino meno. Gli incompresi parlano un linguaggio astruso. I potenziali non si sono espressi. Lo so, anche io ho visto Gasparri al governo e Van Gogh con i quadri in soffitta, ma alla fine sono eccezioni, capricci del caso che vuole la sua fessa di torta. 
Lo storico Edward Gibbon ha scritto: "La storia, di fatto, è poco più che la cronaca dei crimini, delle follie e delle disgrazie dell'umanità". E' un'autorizzazione a non dedicarci troppo tempo. Piuttosto, vivete la geografia. Non avrete visto mai abbastanza mondo, ascoltato abbastanza gente, perso abbastanza tempo.
Non leggete nulla che non sia stato filtrato. Occorre almeno un secondo giudizio per rendere qualcosa degno. Non rincorrete i premi: non solo fanno ridere lo Strega o il David di Donatello, persino quando annunciano il Nobel, in qualunque categoria (ma soprattutto pace e letteratura) si resta perplessi.  
Fidatevi di Vonnegut: "Dobbiamo costantemente buttarci giù dagli strapiombi e farci crescere le ali mentre precipitiamo". E di Johnson: "Nessun uomo sensato dovrebbe penetrare un'anguria, nemmeno per scommessa". 

Un discorso tipo questo è diventato famoso (in effetti ci hanno messo sotto una schitarrata) per una serie di consigli tra cui primeggiava l'invito ad usare lozioni solari. Non c'è religione che non suggerisca (o imponga) abiti lunghi e copricapi per le stesse ragioni. Che non detti diete salutari e comportamenti civili. A parte questo, e nella pratica, hanno fatto più danni delle filosofie più bizzarre.
Se avete studiato filosofia, probabilmente diventerete amministratori delegati di un'azienda che produce lozioni solari.
Ho un'amica laureata in Fisica che scrive progetti di legge sul lavoro del governo. 
Una laureata in Lettere che progetta resort in Africa. 
Quando non fai i capricci, il caso aggiusta le nostre scelte. Fatte a caso. 

Quando siete felici, fateci caso.
Fino a qui tutto bene. 


   CANZONE CONSIGLIATA: Abbi cura di te, Levante.  
Happiness is a work.
Every day. 



 

#LECOSECHENONHO

Quando lo stile Art Nouveau finì per conquistare il mondo, con i suoi disegni floreali e con il suo eccesso, la reazione fu la nascita del Bauhaus: erano gli anni Venti del Novecento. Bauhaus era una filosofia opposta: linee essenziali, e totale indifferenza, se non fastidio, per qualunque cosa andasse ad appesantire senza un motivo funzionale i disegni e le facciate degli edifici. Lo stesso modo che aveva prodotto l'Art Nouveau aveva contrapposto il Bauhaus.
Sta accadendo la stessa cosa nella tecnologia proprio in questi anni, ma al contrario. Stiamo passando dal Bauhaus all'Art Nouveau. Stiamo diventando insofferenti a questo mondo piatto, liquido, silenzioso, essenziale, tattile che ormai identifichiamo con la modernità e il futuro.
Ogni buon film di fantascienza che si rispetti mostra macchine e tecnologie quasi impalpabili. Schermi enormi che si azionano con un contatto umano leggero come una piuma, fruscii lievi, dispositivi sottili, piatti, leggeri, che dicono quanto il mondo pesante di un tempo sia il retaggio di un passato che non potrà più esistere.
Silenzio e leggerezza sono le categorie della modernità e del futuro. La locomotiva a vapore urlava e sbuffava, il treno superveloce sibila. I suoni non trillano come un allarme che ti entra nella pelle, i dispositivi che usiamo tutti i giorni si accendono con suoni quasi onirici per dirci che il mondo buono è lieve, mentre il mondo cattivo tuona, esplode, grida, fatica e violenta la terra in tutti i modi.
Il Bauhaus ideologico in cui viviamo ha però bisogno dell'Art Nouveau, vuole il tempo contorto e inessenziale, vuole tornare all'immagine di Lewis Hine, il grande fotografo americano che nel 1920 immortalò un operaio a torso nudo intento a stringere enormi bulloni di una pompa a vapore. Il mondo sottile moderno si alterna al mondo d'acciaio, allo spessore, alla fisicità delle cose.
Colpisce che in questo tempo, che chiamerei del Flat Dream, del Sogno Sottile, una delle applicazioni per tablet di maggior successo sia Hanx Writer: scaricata da migliaia di persone che vogliono simulare la macchina per scrivere sui tablet. L'applicazione l'ha inventata un famoso attore, Tom Hanks, collezionista e appassionato di macchine per scrivere. Ne ha moltissime, soprattutto quelle di un tempo: pesanti, di ferro, rumorose, lente. Con i tasti che andavano pigiati con forza, perchè la lettera andasse a colpire il foglio nel modo giusto, fino a imprimerlo, a incidere la carta. Il ticchettio era un rumore fastidioso, il campannellino ti risvegliava dalla concentrazione per avvertirti di andare a capo. I fogli andavano inseriti uno a uno. Hanx Writer non permette di scrivere sulla carta, ma sul monitor di un tablet, però riproduce lettering, suoni e modalità di uno strumento che molti ricordano con nostalgia e altri non hanno mai neppure usato.
Gli storici sanno che l'Ottocento fu il secolo del progresso. L'invenzione della macchina a vapore portò le industrie e la ricchezza nei Paesi occidentali, che divennero da quel momento "industrializzati". La ricerca scientifica migliorò, compresa quella medica. E l'illuminismo insegnò a pensare senza superstizioni e paure ancestrali. La ragione sembrava vincere dappertutto. Ma gli storici sanno anche un'altra cosa: tutti gli occultisti, i complottisti, gli imbroglioni, i falsari, i medium trionfano proprio nel secolo del progresso.
Tutto è sempre doppio e speculare. Più il mondo si fa sottile e leggero più si cerca di tornare alla pesantezza del passato.
La macchina per scrivere digitale di Tom Hanks è un grande successo per chi non scrive abbastanza. E non sa quanto il computer abbia migliorato scrittura e concentrazione. La romantica applicazione Hanx Writer è la nostalgia di un mondo che resta dentro di noi: è la civiltà delle macchine che rimpiange la sua potenza e la sua forza.


   CANZONI CONSIGLIATE: Niente di niente, Erica Mou.
Se vuoi essere felici, ama.
Se non ami la tua vita passerà in un lampo.
Fai del bene, meravigliati, spera.

#ILSENSODELVIAGGIO

Da qualche millennio l'umanità va avanti raccontandosi storie. Non fraintendetemi, non credo che il collante del mondo siano le bugie, penso proprio ai racconti, alle fiabe, narrazioni apparentemente irreali e invece piene di vita, di insegnamenti, di messe in guardia. A Cappuccetto Rosso la mamma dice di stare attenta al lupo-pedofilo, i tre porcellini insegnano l'importanza del lavoro, come la storia della cicala e della formica, e così via. Non c'è fiaba che non serva a qualcosa. Così come le leggiamo ora sono state imbellettate da Charles Perrault, dai fratelli Grimm, da Hans Christian Andersen, da molti autori per l'infanzia, ma quasi tutte hanno radici antiche, popolari: erano il modo di educare alla vita, alle sue luci e alle sue ombre, quando le scuole non esistevano e nessuno sapeva leggere e scrivere.
Mi limito a questi nomi ma potremmo evocare i favolisti greci e romani o quelli medioevali, di cui abbiamo più o meno memoria. Persino i filosofi quando volevano parlare a un pubblico più vasto ricorrevano alle fiabe. Voltaire, ad esempio, per indicare la via alla felicità in un mondo di "sfighe" narra la storia di Zadig. E cosa sono Pinocchio o Alice nel paese delle meraviglie? Pensavo a questi consolidati anticorpi temendo fossero ormai depotenziati da WhatsApp e i suoi fratelli. Poi ho letto la storia del brutto anatroccolo Mika, figlio e mito della generazione cresciuta con Internet, i social network e i talent show. Sentendolo parlare di sè, di quando i bulli gli tiravano le lattine di Coca Cola all'ingresso della scuola di Londra costringendolo a una forma di autismo tra i viali di Hyde Park, e di come si è riscattato grazie a una madre interessata a lui, alla sua realizzazione, ai suoi desideri e non a quello che diceva la gente o qualche insegnante, ho capito che nessuna tecnologia può decidere i nostri destini. Sì, ci può condizionare, ma noi siamo soprattutto noi stessi e le persone che ci stanno intorno. Il giovane, tecnologico, famoso Mika racchiude tutto nella frase: "La bellezza si provoca con la bellezza". E viceversa. Allora ho scomodato un mio vecchio professore con qualche anno di esperienza in più chiedendogli di spiegarmi perchè nel mondo si producono tante (incomprensibili) disuguaglianze. Divari che sembrano destinati ad aumentare in maniera intollerabile: quest'anno, negli Usa, il reddito medio dell'1% dei più ricchi è 30 volte superiore al reddito medio del restante 99%. Immaginatevi se lo paragonassimo al 50% della popolazione meno abbiente. In situazioni come queste, nella Storia, sono maturati sconvolgimenti sanguinosi. Alcuni economisti hanno elaborato una formula semplice per definire la "felicità" in economia: si ottiene quando aumenta il nostro reddito in maniera più che proporzionale rispetto a quello di chi ci sta intorno. Ciò significa che anche il benessere degli altri deve migliorare. In caso contrario siamo "infelici" perchè l'invidia di cui siamo circondati ci mette in pericolo. Sembrerebbe una formula facile da applicare: basterebbe moderare l'ingordigia di chi ha già tutto. Ma come possiamo constatare ogni giorno, non è così che va il mondo. Perchè? La risposta è sempre la stessa: homo homini lupus, l'uomo è un lupo per l'uomo. E la finanziarizzazione dell'economia mostra zanne sempre più affilate e voraci.
Eccoci tornati alle antiche fiabe.
Evidentemente hanno insegnato poco.


   CANZONI CONSIGLIATE: Il mio paese in maschera, Emanuele Dabbono + Generazione Boh, Fedez + C'est ma terre, Christhophe Maè.
Vedrai l'albero dei giusti e le ingiustizie radicarsi. Ma se hai paura, stringimi. 

#LIBRI

A Milano, la Libreria del Corso chiude. L'altro ieri mi è arrivata una mail che diceva di usufruire dei "punti fedeltà" sulla mia tessera entro il 2 novembre.
Settimana scorsa sono uscita di casa e sono andata in corso Buenos Aires 39 nella speranza che fosse un allarme invece di un funerale.
Però poi sono entrata in libreria come si entra in chiesa; col cappello in mano, se avessi il coraggio di portare il cappello.
L'unica cosa che sono riuscita a proferire, col tono della cospirazione, è stata: "Ho ricevuto la mail". I commessi avevano tutti gli occhi lucidi. Annuivano con la definitività delle decisioni prese. La Libreria del Corso chiude.
Al mio secondo "Mi dispiace tantissimo", la mia amica libraria è esplosa: "Ti spiace, Ju? Anche a me, e non perchè sarò un'esodata, ma perchè non farò mai più la libraria dopo 25 anni che consiglio scrittori che ho letto. Da giorni assistiamo alla processione dei clienti "tantissimo dispiaciuti".  E in quest'anno di crisi durissima? Dove eravate quando avevamo bisogno?".
Mi sono vergognata come un cane, sentita una schifezza, scoperta piena di colpa. Uscendo ho pure visto uno dei libri di una mia amica scrittrice in bella mostra e mi sono sentita ancora peggio. 
Perchè io compro anche online, certo, e vado a caccia di sconti e compro usato; però poi per farmi ispirare, consigliare, anche solo fare due passi, le librerie mi mancano terribilmente. Per un istante penso che forse comprare online è non dover mai dire "mi dispiace".
Ieri un'amica libraia mi ha mandato un lungo messaggio che inizia così: "La libreria attraversa un momento di difficoltà...".
Ho proseguito con un groppo in gola e una sola certezza: "Ecco, chiude anche la Ubik di Parma, non attendere la fine dell'sms per sentirti una schifezza".
E invece il messaggio era una richiesta: "Aiutateci! Oppure siamo spacciati". Ecco, questa volta c'è un pò di tempo, stavolta si possono fare delle cose per salvare questa libreria. Non ultimo, andare lì a comprare dei libri, godere del servizio di migliaia di bravissimi librai che sono tutti, chi più chi meno, strozzati dalla crisi, in procinto di chiudere, ma fermi nella loro missione di "spacciatori di sapere".
Io oggi so di questa libreria di Parma, ma ognuno di noi sa di molte altre librerie prese nella morsa della grande distribuzione, dell'online e del drastico calo di vendite dell'intero settore cultura.
So bene che ci sono problemi più urgenti che riguardano la fame, la salute, l'affitto e tante altre cose, però l'impoverimento culturale ha solo minori conseguenze nell'immediato: sul lungo periodo lo pagheremo a prezzo salatissimo e con molto, moltissimo dolore. Sapere le date di quando scoppiano le guerre o le bombe è importante, riconoscere le vigilie delle tragedie è più difficile ma può anche essere più utile evitarle o limitarne i danni.


   LIBRI CONSIGLIATI: Il bambino che imparò a colorare il buio, Billy Mills & Nicholas Sparks + Anna, Niccolò Ammaniti.
Un raggio di luce buona vi arrivi dove sentite freddo. 

 

#CHILHAVISTO

Quante cose dobbiamo conservare? E di quante cose abbiamo bisogno per ricordare? E quante devono essere di continuo a portata di mano? L'era di Internet ci ha obbligato a tenere tutto: anche la mail più insignificante, la fotografia casuale, magari mossa e scura scattata quasi per gioco, parole scritte in fretta in una nota sullo smartphone, il video di cinque secondi che non sai neppure perché lo hai fatto. E poi tutti i copia e incolla di qualsiasi cosa che leggiamo e pensiamo potrebbe servirci, e le foto che non sono le nostre, quelle che troviamo sul web e ci colpiscono. Conserviamo tutto quello che possiamo mettere tra le nostre cose, con un movimento delle dita sul mouse o sullo schermo touch. E questo è il nostro mondo. Un mondo digitale di informazioni continue. Conserviamo tutto perché non esiste più lo spazio o, per dirla in modo paradossale, perché non c'è né troppo. Fare pulizia su un computer è un gesto più simbolico che reale. Le cose della nostra vita si possono tenere per sempre, se uno lo vuole. Diecimila mail non pesano nulla e neppure centomila fotografie. Se non fossero posta elettronica e immagini digitali avremmo bisogno di cantine e di solai. Non buttiamo niente perché non c'è la necessità. Ma non buttare via non significa conservare.
Se io non butto niente, per un facilissimo ragionamento logico, non conservo nulla. Conservare è avere cura, è scegliere le cose da tenere e scartare quello che non serve, è decidere cosa portarsi con sé e cosa invece non può entrare nel proprio spazio privato. Uno spazio privato che può essere una casa, ma anche una borsa.
Le immagini del potere di un tempo hanno sempre mostrato gli uomini importanti con una borsa di documenti, forse anche con degli oggetti personali.
L'espressione comune era: non si separa, o nei casi drammatici, non si separava mai dalla sua borsa. Tutti sappiamo di quella di Aldo Moro, di quella leggera di Enrico Cuccia, di quella sparita di Paolo Borsellino. La borsa era uno spazio, dove mettere cose importanti da portare con sé. Oggi, se va bene, dentro quello spazio c'è un luogo ulteriore, che è più ampio dell'interno della borsa: perché è quello di un tablet, di un portatile, di vari smartphone, collegati a un cloud, che si portano dietro tutto e che rendono la borsa non più un'unità di luogo ma una tasca come un'altra dove mettere una cosa che ti porta altrove, e ti permette di consultare e leggere tutto, ti mostra l'universo, l'infinito, il possibile, sempre. Non ho quelle fotografie con me, non ho quei documenti con me, devi aspettare che torni a casa per ritrovarli e vederli...è frase sempre più rara.
Ma in questa fede verso l'infinito, in questa idea ingenua per cui oggi siamo in grado di essere al centro della terra e ai confini dell'universo, oltre l'orizzonte degli eventi, e in questa fede digitale dove tutto si crea e nulla si distrugge arriva Vint Cerf, Chief Internet Evangelist di Google, un uomo molto competente e importante e dice: il digitale non è eterno. Domani tutti i documenti che teniamo sui nostri dispositivi potrebbero diventare illeggibili. Le mail, le foto, i video e quant'altro.
Se tenete a una foto: stampatela. La sappiamo da anni. Lo sanno anche i bambini. Il figlio di una mia amica, di soli sette anni, non capiva cosa fosse quel piccolo simbolo che si trova nel programma word, ovvero l'icona per salvare il testo dopo che l'hai scritto. Raffigura un floppy disk stilizzato ma il figlio della mia amica non ha mai visto un floppy disk, perché non esistono più. E sono esistiti soltanto per pochi anni. Dentro il nostro piccolo universo abbiamo preteso di metterne un infinito che non sappiamo di cosa sia fatto. Ci siamo illusi che conservare equivalga a ricordare. E abbiamo dimenticato cosa significhi davvero saper ricordare.


  CANZONI CONSIGLIATE: Walden, Clark Kent & Phone Booth + Alfonso, Levante + Talk about you, Mika.
La musica ha per me il potere di accelerare la creatività, di spingere le emozioni in territori sconosciuti, vicino alle sorgenti magiche dove tutto diventa fantastico.