E' QUASI MAGIA JHONNY

Qualcuno forse pensa che non lo riguardi ciò che è accaduto a Roma circa venti giorni fa, nei dintorni e all'interno dello Stadio Olimpico. Pistolettate, feriti, un uomo in fin di vita, scontri con spranghe e catene, e poi gli ultrà che dettano legge e le forze dell'ordine che si inchinano, i fischi all'inno nazionale e le cosidette autorità in tribuna che non fanno un plissè...Una giornata di ordinaria follia calcistica, si direbbe. Come ce ne sono state tante. Roba che riguarda qualche centinaio, o migliaio, di sottoproletari mascherati con i mefisto e i caschi integrali, o tutt'al più ha a che fare con quei mattI di tifosi "normali" che ancora si ostinano ad andare allo stadio, invece di starsene a casa, sul divano, a godersi in santa pace la partita o a fare altro, tipo leggere "un buon libro", o andare a letto presto, come Robert De Niro in C'era una volta in America.
E invece non è così. Quella "roba" che è successa riguarda tutti noi. Lo sport non c'entra, non c'entra neppure la "fede" calcistica. Quella "roba" è il sintomo più evidente, in qualche modo la sintesi perfetta, di quanto siamo disastrati come Paese, di quanto siamo arretrati in termini di educazione civica e convivenza civile. Pensateci un pò. Guardate con attenzione le foto di quell'energumeno tutto tatuato che chiamano Genny 'a Carogna ( poverino, in realtà si porta addosso il soprannome del padre, dev'essere una famiglia di fini intellettuali), andate a vedervi i filmati sul web mentre come un direttore d'orchestra comanda a gesti un intero settore pieno di ultrà, poi scende dai cancelli divisori sui cui era appollaiato per "trattare" ( la ormai famosa trattativa Stato-Curva), infine fa segno col pollice alzato ai responsabili della sicurezza che, ok, si può giocare. L'ha deciso lui.
L'ha deciso lui, capite? Per questo è vergognoso che il Presidente del Senato Pietro Grasso e il premier Matteo Renzi non se ne siano andati, per marcare la distanza tra le istituzioni che rappresentano tutti noi e lo schifo di spettacolo che stava per andare in scena, in cui lo Stato, il governo, il Prefetto, la Polizia e i vertici del calcio si sono piegati ai diktat di un manipolo di deliquenti abituali. Da troppi anni mi faccio ormai le stesse domande: perchè ciò che non è minimamente permesso da nessuna parte è tollerato se non incoraggiato tra le mura di uno stadio di calcio? Perchè lì si possono commettere reati? Perchè si sopporta che vengano sparati razzi, botti e bombe carta? Perchè ci si rassegna agli striscioni o ai cori razzisti? Perchè si consente questa sorta di extraterritorialità? Le Questure li conoscono, sanno perfettamente chi sono, immagini tv e fotografie li ritraggono e li rendono riconoscibili: perchè non li prendono e non li sbattono in galera? Perchè negoziano con loro?
Non sono mai andata allo stadio. E oggi mi guardo bene dall'andarci con mio nipote, che ha quasi otto anni. Una volta dentro, ancora ancora. Ma è il fuori, l'antistadio che fa paura, sia prima che dopo le partite. Poliziotti in assetto di guerra sotto luci livide ( altro che Luci a San Siro, caro Vecchioni ), camionette e blindati, il terreno disseminato di bottiglie e rifiuti di ogni genere, gruppetti di tifosi che corrono qua e là, urlano slogan, e ti sfiorano, ti urtano, gente che tenta di arrampicarsi per entrare gratis, cancelli e tornelli manco fossimo al confine messicano di Tijuana...Ma come è possibile? Com'è possibile che non siamo ancora riusciti a correggere tutto questo? Com'è possibile che una serata di svago assomigli a un'incursione dietro le linee nemiche?
Certo, come si dice, il pesce puzza dalla testa. Qualche giorno fa, Piero Fassino, sindaco di Torino, tifoso della Juventus, un politico che qualcuno vedrebbe bene come successore di Giorgio Napolitano, ha mostrato il dito medio ai supporter del Torino che lo contestavano. Poi ha tentato di smentire, ma è venuto fuori un video che lo inchioda. Dell'errore di Grasso e Renzi ho già scritto. Mentre il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, fa sapere che "sta pensando" a prolungare il Daspo ( il Divieto di accedere alle manifestazioni sportive ) a vita. Sta pensando? Come sta pensando? In Spagna, il tizio che ha tirato una banana in campo è stato prima arrestato ( sì, arrestato, per aver tirato una banana ) e poi escluso per sempre dagli stadi. E' così difficile? Dobbiamo "pensarci" sopra? Anche Renzi ha annunciato di voler "lasciar finire il campionato e poi, tra luglio e agosto, pensiamo a come restituire il calcio alle famiglie". Pensate, pensate. Intanto Genny 'a Carogna, Gastone, Diabolik, Sandokan, il Bocia, il Barone, er Mortadella, er Mafia e perfino Guglielmo il Farmacista e tutti i capi e capetti ultrà di tutti i colori d'Italia agiscono. E agiscono non certo nell'ombra, anzi: alla luce dei riflettori.

Ju.



TORNANDO A CASA

Lo pensavo mentre tornavo a casa in macchina, e per un certo momento sono rimasta ferma a un semaforo rosso. L'ho pensato mentre cantavo con Baglioni "Strada facendo". Guardate che è incredibile: se pensate alla sorte che accomuna la gran parte delle principesse dei nostri tempi viene da pensare addirittura a una specie di malefico sortilegio: sono quasi tutte, ciascuna a modo suo, infelici, sole, tragiche nei loro profili di vita, maschere con la corona in testa e la pena nel cuore. Fanno eccezione le teste rosa coronate del nord Europa, dalla Danimarca alla Norvegia, alla Svezia, che paiono immuni alla reale sorte.
Prendete Charlene di Monaco, esempio sconcertante nella sua ieratica infelicità. Bella, giovane, scolpita dallo sport, ha sposato a 33 anni nel luglio 2011 lo scapolo più ambito del mondo, Sua Altezza Serenissima Alberto di Monaco, ora Principe Sovrano di un impero di meravigliosa bellezza e immense fortune. L'ha sposato che lui era già uomo di 53 anni, dunque solido, si immagina, e marito convinto. E invece fin dal primo giorno di nozze, anzi dalla vigilia delle nozze, un velo di malcelata inquietudine ha oscurato lo sguardo di Charlene la sudafricana: pare non si volesse nemmeno sposare, a stare alle voci che si rincorsero allora, scossa forse da dicerie di presunte e mai dimostrate paternità del marito; poi il "sì" l'ha detto, però nella Corte d'onore del Palazzo di Monaco è apparsa bellissima ma assente, come addolorata, una statua di cera. Troppo pesante il confronto con l'indimenticata Grace? Forse. Troppo assillante l'incalzante pretesa mondiale di un figlio per assicurare ad Alberto la discendenza? Magari. Ma ci deve essere qualcos'altro che rattrista Charlene tanto da renderla sfuggente perfino ai suoi sudditi, sfuggente perchè davvero in perenne fuga, a quanto sia lecito vedere a noi gente normale, da importanti impegni ufficiali, da cerimonie strapubbliche, insomma dal fianco e dal braccio del marito regnante. Che ci faceva sola, anzi accompagnata da un gruppo di attempati amici, ai Caraibi, sopra le righe e smarrita, il bicchiere in mano, le movenze scomposte e disadatte a una principessa del suo rango? Perchè il Principato non riluce più di sfavillii e feste memorabili, di invidiabile e da sempre invidiata felicità?
La padrona di casa è una principessa triste. Il segreto che Charlene nasconde nel cuore lo sa di certo solo lei. Un segreto stregato che mi pare tanto simile a quello che tormentò Lady Diana, sposa ragazzina dell'erede al trono d'Inghilterra, e da subito infelice a quel suo Carlo Altezza Reale Principe di Galles che ha sempre diviso con l'amante di lui, Camilla. La favola di Diana è stranota. Meno noto, forse, è che pure Camilla, da quando ha poi sposato Carlo e ricevuto in cambio il titolo di duchessa di Cornovaglia, non appare più ridanciana come ai vecchi e scandalosi tempi. C'è chi dice perfino che Carlo dorma in una stanza tutta sua, lui che quando erano amanti la raggiungeva di nascosto dentro il baule di un'auto per non farsi sorprendere dai fotografi. E Kate Middleton, per restare in Inghilterra? Sposa dall'aprile 2011 di William, duca di Cambridge, e da allora duchezza, ha messo al mondo sì l'erede al trono George, bambolotto reale, e appare sempre sorridente. Però anche troppo magra, in bilico su una continua altalena di su e giù, troppo stanca forse, troppo impreparata forse, lei borghesissima, alla vita di corte, troppo strapazzata da Sua Maestà la Regina che la bacchetta in continuazione sui vestiti e acconciature e disinvoltura sui sudditi...Anche la principessa Letizia di Spagna pare che questi ultimi tempi colpita dal melefico sortilegio delle altre sue "colleghe". Con il marito, il principe Felipe ed erede al trono, sono musi lunghi e sempre più rare occasioni pubbliche. Si dice che Letizia, in odor di anoressia da anni, forse mai ripresasi dalla morte della sorella, sia ora stufa di un suocero che non l'ha amata mai, e che ora voglia il trono.
Chissà qual è il segreto greve di tanta comune infelicità. Eppure hanno tutto, pensavo. Temo che la risposta sia banale: tutto è niente se non c'è un briciolo di sana normalità. Tutto è niente se non ti fa battere il cuore e guardare al futuro con incantate aspettative.

Ju.

CIAO AMORE CIAO

Il 13 aprile 2006, mentre eri all'ospedale per i soliti controlli, ti eri sentito male e ti avevano ricoverato. Il medico con cui parlammo disse che era convinto che non ce l'avresti fatta, che la situazione era molto critica. Passarono due giorni e tu ti riprendesti, miracolosamente, come disse quello stesso medico.
La domenica che venni a trovarti eri fuori, nel giardino dell'ospedale, seduto su una panchina. Indossavi un pigiama azzurro e il tuo viso, anche se provato dalla malattia, appariva meno teso e stanco del solito. Quando arrivai mi chiedesti di fare due passi. Era primavera, l'aria era calda e il giardino pieno di fiori. Mentre camminavamo nessuno di noi parlò e ad un tratto, come se tutta la paura di perderti fosse arrivata in quel momento, ti abbracciai come una innamorata timida che all'improvviso trova tutto il coraggio del mondo. Non so quanto tempo siamo rimasti stretti, in piedi vicino all'aiuola, nel sole di quel pomeriggio di aprile.
Al termine della visita mi avevi voluto accompagnare al cancello e mentre scendevo lungo il viale mi sono voltata, e tu eri ancora lì che mi guardavi camminare. Quando hai alzato la mano per salutarmi mi sono dovuta trattenere per non correre da te. Ho ricambiato il tuo saluto e poi ho continuato a camminare, come un automa, con le lacrime che mi rigavano il viso.
Ho sempre pensato che noi ci siamo congedati quel giorno, in forma privata, lontano dagli occhi di tutti.
Un congedo d'amore nella stagione più leggera dell'anno.

( Fine)
.

Ju.

LUCE GUIDA

Ero attaccata alla rete del rettilineo dopo il Tamburello, in piedi sul muretto di cemento. Prima di entrare, un bagarino aveva venduto a Damiano - il fratello dieci anni più vecchio di me che mi aveva portato lì a cavallo della sua moto, facendomi guidare per tre quarti del viaggio - due biglietti del giorno prima. Era il 1994, un caldo 1° maggio, mi trovavo a Imola per assistere al mio primo gran premio di Formula 1 e avevo da poco compiuto diciassette anni.
Fin lì, era stato un fine settimana molto oscuro. Il venerdì la Jordan di Barrichello era volata, letteralmente, contro la rete di recinzione della variante bassa, il sabato Roland Ratzenberg, alla sua prima gara, si era schiantato a 300 all'ora sul muretto della curva Villeneuve. Uno era coperto di contusioni e con il setto nasale rotto, l'altro era morto.
Ayrton Senna era per la sessantacinquesima volta in pole position. Chi gli era vicino sostiene che in quei giorni un'ombra rassegnata e impaurita gli piegeva lo sguardo e il volto in espressioni che non erano sue. Molti credevano che la ragione fosse incastrata tra le lamiere delle vetture di Barrichello e Ratzenberg, altri nella sua, quella Williams fino alla stagione precedente imbattibile, la cometa che a detta di chiunque lo avrebbe riportato all'unico posto che gli spettava: il primo. Eppure di quell'auto non riusciva a venire a capo. L'eliminazione di buona parte dell'elettronica l'aveva resa un cavallo imbizzarrito, l'abitacolo era troppo stretto e Senna aveva dovuto rinunciare alla misura del suo volante, molto più grande degli altri. Ma c'era di più, era come se avvertisse qualcosa di definitivo, come se tutto improvvisamente avesse perso senso. Il sabato, registrando un commento del circuito per un canale francese, aveva concluso con un saluto ad Alain Prost e confessato che sentiva la sua mancanza. Sapeva che il pilota francese il giorno seguente sarebbe stato in cabina di regia. "Un saluto speciale al mio caro, il nostro caro amico Alain Prost. Ci manchi molto". Proprio a Prost, il suo grande nemico, l'uomo con cui si era litigato per anni i campionati del mondo e i favori della McLaren, l'uomo con cui si era vicendevolmente sbattuto fuori in due seguenti edizioni del gran premio di Suzuka. Prima della partenza, fermo in prima fila, Senna si sfilò il casco e lo tenne sul cupolino della sua Williams. Non lo aveva mai fatto. Se riguardate le registrazioni di quei momenti, lo potete vedere appoggiare la nuca al retro dell'abitacolo, sospirare profondamente, scuotere la testa.
Quel 1° Maggio, il Gran Premio non voleva partire. Da dove ci trovavamo, appena prima della Villeneuve, vedemmo sfilare le auto per il giro di prova, poi una lunga catena di giri dietro alla safety car. J.J Letho, rimasto fermo alla partenza, era stato violentemente tamponato da Pedro Lamy. Sembrava guardarli tutti negli occhi, quel gran premio, dire "ragazzi, lasciate perdere, oggi i pianeti non sono con voi".
Una volta sola li vedemmo sfilare a tavoletta, Ayrton in testa e Schumacher dietro. Poi l'attesa, l'urlo dei motori in lontananza, noi che ci attacchiamo alla rete ancora il ricordo del metallo sulle mani, i cavi di ferro che mi rigano il volto per vedere meglio. E quel proiettile lanciato verso il muro, i pezzi che saltano in giro come fuochi d'artificio, l'alettone che in fondo al serpentone di macchine viene sollevato da terra come un coriandolo. Poi il silenzio. Un intero circuito automobilistico ammutolito.
Immagino che certe cose le intuisci tuo malgrado. Le ambulanze, i medici, le voci sommesse che passano tra la gente, l'elicottero.
Ayrton è ricordato soprattutto per la sua maniacale dedizione e concentrazione. Era simpatico, era bello, piaceva a tutti. Credo che Ayrton sia diventato parte di quella minuscola manciata di amici i cui contorni si dissolvono lentamente fino ad assumere più la sembianza di fratelli.
Forse Ayrton voleva vivere la vita, tutto qui, e se possibile farla vivere anche agli altri. Ecco ciò che forse ognuno vedeva in Ayrton. Ciò che tutti vedevano meno era lo sguardo ombroso e rassegnato di chi di tanto in tanto gli appariva in volto, lo stesso che obbliga me in tante occasioni a trascinarmi fuori a distrarmi e lo stesso che rivedo ogni volta nelle registrazioni degli occhi di Senna prima della partenza di Imola, quel 1° maggio 1994.
Che c'entra Ayrton con me?,  che nel 1994 avevo solo sette anni ed ho solo immaginato di essere ad Imola, quel giorno, con mio fratello. Questa la semplice domanda che mi faccio da anni, mentre mio malgrado vedo i nostri volti sovrapporsi nella mia testa. Che c'entrano la concentrazione e il talento e la dedizione dell'uno con la mia sinistra leggerezza? Per qualche brevissimo istante, fino a poche settimane dopo il gran premio, qualcuno accennò alla possibilità che Senna fosse andato a sbattere apposta contro il muretto del Tamburello. Non fu così: si ruppe il piantone dello sterzo, malamente modificato e risaldato nottetempo per rendere più comodo l'abitacolo. Tra l'altro, a ucciderlo fu un braccetto della sospensione, proiettata dall'angolazione dello schianto dritta verso il suo casco. Per il resto, il corpo di Ayrton non presentava alcuna frattura o contusione: se non fosse stato per quel braccetto sarebbe uscito dall'abitacolo con le sue gambe.
Quindi, alla fine dei conti, restano semplicemente due vite, due vite che a modo loro - almeno per alcuni attimi - intravedono ciò che ognuno insegue: tutto l'arcobaleno dei colori, la sensazione che il mondo ti ama, di essere uno dei felicissimi risultati dell'evoluzione. Figlio non tanto dei tuoi genitori, ma dell'umanità. Proiettato verso il più luminoso dei futuri possibili. Improvvisamente consapevole, però, che forse quel futuro è già passato.
Ad Ayrton, forse, è stato semplicemente concesso il grande privilegio di uscire di scena prima che tutto si sgretoli.

Ju.