LA MIA STRANA VERITA'

Accettarsi è un grande tema psicoanalitico e novecentesco. C'è ancora chi non lo capisce.
"E se uno è stronzo? Deve accettarsi lo stesso?", è l'argomento di mia mamma con chi afferma l'importanza dell'essere se stessi, ma lei è una bastian contraria e soprattutto non ha l'inconscio, o almeno sostiene di non averlo. C'è al contrario chi - tutti noi con l'inconscio - è convinto che conoscersi e accettarsi sia il passaggio più importante della costruzione di se stessi.
Dire a tutti, dopo essersi accettati, chi siamo è invece il grande tema individuale di questo secolo.
L'attore Carlo Gabardini alle Invasioni Barbariche lo scorso febbraio ha raccontato quanto è contento del suo tardivo coming out - fatto in prima pagina sulla Repubblica dopo il suicidio di un ragazzo omosessuale -, anche se fino a qualche mese prima non aveva mai sentito il bisogno di farlo, e anche se ora difficilmente gli offriranno parti da latin lover ( "ma non me le offrivano nemmeno prima", ha spiritosamente sottolineato ).
La cosa interessante che aveva aggiunto è che il coming out bisognerebbe farlo per qualunque cosa, non solo sull'orientamento sessuale.
Se un manager in cuor suo si sente giardiniere dovrebbe dirlo a tutti: lo aiuterà ad essere più felice e a fare quel che veramente desidera. Se un avvocato si sente marinaio, un muratore ballerino, un impiegato cuoco ( lo so, quello tra il mestiere che facciamo e chi siamo è un passaggio ardito, ed è ovvio che c'è una distinzione tra quel che siamo e quel che facciamo, come è altrettanto ovvio che ci sono circostanze, anche di sopravvivenza, per le quali si è obbligati a fare un mestiere che non ci corrisponde: ma sto parlando di identità e si fa a capirsi, come direbbe la mia amica Federica Bosco ) dovrebbe avere il coraggio di dirlo, oltre che di farlo, superando la paura di quel che diranno gli altri.
Potrebbe essere difficile e doloroso, sicuramente sarà faticoso, ma poi ci si sentirà più liberi, più forti e più contenti.
Naturalmente deve essere una scelta personale e non un obbligo, ma credo che Carlo Gabardini abbia ragione: bisogna avere il coraggio di esprimere se stessi, anche se quel che esprimiamo dovrebbe deludere o tradire le aspettative che gli altri hanno nei nostri confronti.
Nel mio piccolissimo ne so qualcosa: non pochi, in particolare alcuni miei colleghi, mi sfottono per aver detto, a ventisei anni, la verità sul mio orientamento sessuale, cosa che volevo fare da quando avevo vent'anni ma che, per una cosa o per un'altra, non avevo avuto il coraggio di fare prima. Quando - attraverso il trauma per la morte del mio ex fidanzato - ho superato la paura di venir giudicata, ho avuto molte soddisfazioni da parte di tante persone che, superando a loro volta pregiudizi comprensibili, hanno letto il mio blog e la mia storia.
Per tutti questi motivi mi ha molto emozionato il discorso che l'attrice Ellen Page ha tenuto, il giorno di San Valentino scorso, durante la conferenza Time to THRIVE:
"Sono qui oggi", ha detto, " perchè sono gay e perchè forse posso fare la differenza...Sono qui per aiutare gli altri ad avere una vita più semplice e più serena...Sono stanca di nascondermi e mentire attraverso l'omissione".
Ellen Page ha la mia età, ventisette anni. A ventuno è stata candidata all'Oscar ( per il film Juno ) e sta facendo una bella carriera. Guardate il video: le trema la voce, si dondola sulle gambe. Sta facendo una cosa difficile, che Jodie Foster è riuscita a fare solo a cinquant'anni.
Non è obbligatorio fare coming out, ma è liberatorio, aiuta noi stessi e forse, nel caso delle persone note, anche gli altri.


La Jù.



AMARCORD

Il mondo della rete, il web, non è un mondo di oggetti, ma è un mondo di immagini di oggetti. Non è un mondo a tre dimensioni, ma quando va bene simula le tre dimensioni. Non è un mondo fisico, evoca il mondo fisico.
Il mondo della rete, il web, è tante cose: lavoro, tempo libero, interessi culturali, socialità e gioco. Ma nessuna di queste cose ha una sua consistenza, una sua realtà fisica. Fin qui niente di nuovo di certo.
Ma finchè continuiamo a muoverci tra immagini e parole, tra rappresentazioni delle persone, tenendo a debita distanza le persone reali, finchè i giochi dei nostri nipoti non si potranno toccare, maneggiare con cura, noi non avremo la possibilità di capire la fragilità delle cose, di tenere tra le mani oggetti che possono rompersi: dal vaso prezioso che ha più di duemila anni alla bambola con il viso di ceramica.
Tutto quello che passa per la rete non prevede schegge e frantumi, non ha un interno che possiamo scoprire andandolo ad aprire per capire come è fatto dentro. Tutto quello che passa per la rete si può inter-rompere, non si può rompere. E hai voglia di dire che anche i cestini sugli schermi dei computer simulano un foglio di carta che si accartoccia. Tutti sappiamo che è solo sheumorfismo, ovvero una simulazione digitale di qualcosa che esiste nella realtà, e non ha niente a che vedere con l'appallottolare un foglio di carta, usando le cinque dita della mano e gettarlo, sbagliando anche mira, nel cestino in fondo alla stanza.
Non si rompe niente e si interrompe tutto. Ma l'interruzione non è distruzione, al massimo è oblio. Ciò che si può interrompere non ha a che fare con la fragilità ma a che fare con l'eternità delle cose. Se butto un foglio nel cestino, so bene che passerò l'impresa di pulizia e lo distruggerà, e so che sto decidendo di perdere quel foglio in una maniera definitiva. Se rompo un giocattolo con rabbia o divertimento, e lo faccio perchè non mi stimola più oppure voglio capire in che modo è costruito, sto alterando in modo indiscutibile quell'oggetto, sancendo la sua fragilità. Se invece la rottura di qualcosa è fortuita e involontaria, posso esserne dispiaciuto e colpito, sapendo che il danno è irrimediabile, o invece tentare un salvataggio in extremis incollando frammenti e parti dell'oggetto per renderlo ancora esistente. Ma è ovvio che non sarà più lo stesso oggetto, e i segni della sua fragilità saranno evidenti e chiari, come ferite di guerra.
Per generazioni si è vissuto in un mondo dove gli oggetti erano fragili. Gli occhiali avevano lenti in vetro che si rompevano al primo movimento maldestro, e gli oggetti della vita quotidiana avevano un punto debole, andavano maneggiati con cura, sennò rischiavano di perdere la propria funzionalità. Poi l'invenzione dei materiali plastici ha dato un senso di indistruttibilità al mondo. Ma restava comunque una percezione della fragilità che oggi è per buona parte perduta.
La fragilità è ormai solo delle parole. Si rompono equilibri con le parole, si evidenziano pecche e incongruenze nello scrivere e nel parlare, si spezzano sodalizi, amori, collaborazioni lavorative con le parole, si ricevono parole e le si temono, e si inviano parole. Lo psichiatra Eugenio Borgna ha appena pubbliciato per Einaudi un breve saggio sul rapporto tra parole e fragilità intitolato: La fragilità che è in noi. E cerca di chiedersi perchè oggi la fragilità sia parola abusata ma anche l'unica che riesce ad arrivare fino al fondo di un mondo che ostenta una solidità digitale indistruttibile. Tutto resta, niente si cancella. Un mondo che non rende evidenti le nostre fragilità, ma al massimo interrompe la nostra volontà di potenza.
Invece la fragilità di una virtù interiore che può salvarci dall'eternità della rete. Salvarci dalla presunzione che tutto possa rimanere sempre e comunque, perchè il mondo digitale della rete ha generato un paradosso: che tutto si crea ma nulla si distrugge.


La Jù.

TUTTO SI MUOVE.

La scorsa settimana ho letto un bella intervista su James Murdoch. Suo padre Rupert, partendo da un'isola in capo al mondo, l'Australia, ha edificato, in mezzo secolo, un impero dei media. Facendo le debite proporzioni, mi ricorda quello della Regina Vittoria alla fine dell'Ottocento: non solo un agglomerato di terre e popoli, ma uno stile, nel bene e nel male. Dico anche male, perchè i Murdoch, come l'aristrocrazia coloniale britannica, di errori, insieme alle conquiste, ne hanno commessi. Però lui, James, l'erede più in vista, credo non gradirebbe questo paragone, non tanto perchè mette in evidenza i chiaroscuri, ma in quanto ha dedicato buona parte dell'intervista a spiegare ai lettori che gli imperi non esistono. Danno un senso di staticità, di soddisfazione, di statu quo da rispettare. E così, sono destinati al declino. Bisogna essere, invece, sempre in cammino, su e giù per la montagna della vita, cadere e rialzarsi, imparare la lezione, guardarsi intorno, ammettere che il mondo gira e in un attimo ti fa sentire inadeguato. Direbbe qualcuno: è la sindrome del tapis roulant che corre sempre all'incontrario; basta, lasciateci scendere, abbiamo il diritto di restare fermi, sonnecchiare e decrescere in felicità. Certo, ciascuno di noi dovrebbe avere la possibilità di costruirsi la cuccia che desidera. Ma ci sono certe regole...
Credo esista, per tutti coloro che vogliono lasciarsi vivere, un tempo per riposarsi e uno per edificare. In fondo, il ciclo della natura è imperniato su quest'equilibrio; e non si può aspettare quando l'esistente va a rotoli. Provo a spiegarmi usando le parole di un genio, scritte molti anni fa ma valide dalla notte dei tempi fino al più lontano futuro che riusciamo ad immaginare. Scrive Albert Einstein: "Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perchè la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorgono l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso, senza essere un "superato". Chi attirbuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L'inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscite. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perchè senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla".
Sposiamo queste parole senza riserve. E ogni volta che sbagliamo, non è una tragedia: abbiamo solo vissuto.


La Jù.