THE UNBELIEVER

AVVERTENZA. QUESTO E' UN ARTICOLO PREVEDIBILMENTE INCOMPLETO.


Chiunque sia stato prima o poi diciannovenne sa che il numero di casini che si riescono a combinare in poche ore a quell'età supera sempre i pronostici. Figuriamoci poi nel tempo, misurabile in giorni, che intercorre tra la stesura di questo articolo e il vostro di leggerlo: se in due giorni un diciannovenne medio riesce a far mettere le mani nei capelli a un adulto un numero X di volte, per Justin Bieber quella X va moltiplicata all'infinito.
Quasi cinquanta milioni di persone che lo seguono su Twitter, il primo disco di platino a quindici anni, centomila americani che firmano una petizione alla Casa Bianca per espellerlo dagli Stati Uniti (su questo poi ci torno), Justin Bieber non ha niente di medio, ma ha ancora molto di dicinnovenne: è uno la cui diciannovennitudine è anabolizzata dall'essere il diciannovenne più famoso del mondo.
La fama non è un meccanismo semplice da gestire da grandi, figuriamoci quando hai un'età per la quale, negli Stati Uniti, devi falsificare un documento se vuoi comprare una birra. Per comprare una birra devi avere ventun anni, per diventare una celebrità mondiale e l'idolo delle adolescenti non c'è un'età minima. Forse dovrebbe.
Forse essere famosi è uno stato talmente a rischio che per accederci dovrebbero servire nervi saldi ufficialmente certificati. Di sicuro è un amplificatore del quale nessuna diciannovennitudine è all'altezza.
Il romanziere Stephen King ha scritto, su Twitter, una riflessione che è quasi un anatema: "Promemoria per Justin Bieber: per le giovani celebrità, la vita è un banchetto a sbafo. Quel che non ti dicono è che spesso l'ultima portata sei proprio tu".
Gli esempi di bambini divorati al banchetto della fama sono noti, e le obiezioni anche. Per ogni psiche devastata dalla notorietà, per ogni Michael Jackson citato a sostegno della tesi "vietiamo lo star system ai piccoli", c'è una Jodie Foster che dimostra che, tutto sommato, si può crescere sotto i riflettori senza andare poi troppo fuori di testa. 
Però solo di recente la celebrità è diventata un meccanismo così invadente. Solo adesso il ciclo di notizie è continuo e tutto, dai fotografi ai social network, è così ingombrante. Essere una baby star di tempi di James Dean era molto meno nevrotizzante.
L'eventuale divieto di fama per i minori sarebbe di difficile adempimento, tra le altre ragioni, perchè a proteggerli dovrebbero essere i genitori, rinunciando così ad avere un figlio che li trasformi da famiglia qualunque in milionari. L'ambizione del genitore che ti butta nello star system diventa socialmente rispettabile se il suo è un tentativo che ha successo. La differenza tra l'Anna Magnani che in Bellissima costringeva la figlia a fare i provini, e Pattie Mallette, che si è ritrovata mamma di Justin a diciasette anni ed era determinata a farsi riscattare dai trionfi del figlio da una vita da ragazza madre, sta nel fatto che la figlia della Magnani non era materiale da successo, e il piccolo Justin è diventato famoso. La fama è faticosa ma anche attraente: chissà se Jeremy Bieber sarebbe un padre così presente nella vita di un ragazzino nato per errore quand'era un ragazzino anche lui, se quell'adolescente non stesse sui poster.
Britney Spears aveve venticinque anni quando il suo esaurimento da fama ebbe la sua più clamorosa manifestazione: nella stessa sera, si rapò a zero e prese a ombrellate una macchina di paparazzi. Era entrata a far parte del Mickey Mouse Club a undici anni e aveva inciso il primo disco a diciasette.
Justin Bieber ne aveva dodici quando mamma Pattie mise per la prima volta un suo video su YouTube, tredici quando un discografico lo notò e lo mise sotto contratto, diciannove la settimana scorsa, quando è riuscito nel giro di pochi giorni a farsi arrestare due volte. Per aver aggredito un autista di limousine in Canada (il processo si terrà a Toronto in marzo, e l'aggressione risalirebbe al 30 dicembre; per aggressione, l'ha denunciato l'anno scorso, anche un paparazzo che l'aveva fotografato mentre fumava marijuana). E per essere stato fermato mentre guidava a Miami: le accuse sono di aver superato i limiti di velocità, di aver fatto resistenza all'arresto, di aver avuto una patente scaduta, e di essere stato sotto l'effetto di alcol, marijuana e Xanax ( un tranquillante che finora ero più abituata ad associare alle quarantenni nevrotiche, come la Blue Jasmine di Woody Allen, che alle popstar sì e no maggiorenni).
Mamma Pattie dà la colpa alle "brutte confluenze nell'industria dell'intrattenimento", dice che le radici cristiane delle persone perbene vengono messe a dura prova e ci chiede di pregare per lei e per il figlio. Papà Jeremy, per rassicurare il pubblico circa la serenità del primogenito dalle uova d'oro, mette su Twitter una foto di Justin che dorme assieme al fratellastro quattrenne. Non lo lasciano in pace neanche quando dorme, non c'è da meravigliarsi se si ribella come farebbe un ragazzino, con l'aggravante d'essere un ragazzino miliardario.
Nelle ultime settimane avrebbe, tra le altre cose, lanciato uova contro la casa di un vicino e scialato 75 mila dollari in spogliarelliste in una sola sera. Se fosse il figlio del mio vicino di scrivania, sarebbero le (costose) bravate di un ragazzino.
Siccome è un ragazzino che fa notizia, la spogliarellista mette la foto del mucchio di banconote su Twitter, e non è una scena del nuovo film di Scorsese ma l'ennesimo scandalo che alimenta il mito dell'autodistruttività di Bieber, che osservo con lo sguardo "Vediamo quanto ci mette a schiantarsi" che prima avevo riservato a Amy Winehouse.
Siccome è il ragazzino più visibile del mondo, è (testuale) "un pessimo esempio per i giovani americani" e deve essere cacciato dal Paese, secondo centomila cittadini statunitensi che hanno firmato una petizione (la regola dice che, se una petizione ha più di centomila firme, la Casa Bianca è tenuta a dare risposta: come se Obama non avesse cose più serie di cui occuparsi).
La mia parte ottimista vuole credere che siano centomila firme di Directioners, le fan del gruppo One Direction, schieramento opposto alle Beliebers (le fan di Justin Bieber si chiamano con una sola lettera di differenza da believer, la parola inglese per dire "credente": Justin Bieber è l'oppio dei popoli, o almeno di quella parte dei popoli che ha ancora l'età per scrivere i ritornelli delle canzonette sul diario).
La mia parte ottimista non vuole credere che ci siano centomila adulti che s'incomodano a chiedere al presidente degli Stati Uniti di cacciare il pericoloso adolescente (Bieber è canadese, il visto per artisti con cui si trova negli Usa viene revocato in caso di crimini gravi: è ragionevole prevedere che la Casa Bianca dica di non poter far niente).
Se ci fossero, però, mi piacerebbe chiedere loro: ma voi i vostri diciannove anni ve li ricordate?
Certo, se oggi sei un adulto hai avuto il vantaggio di avere diciannove anni in un tempo in cui non c'erano Facebook, YouTube, o altri rapidi mezzi di pubblico ludibrio per i comportamenti inadeguati (cioè la maggior parte dei comportamenti che si hanno a un'età alla quale, come nella canzone di Guccini, "si è stupidi davvero"). Certo, uno psicanalista direbbe che due arresti in una settimana sono un grido d'aiuto, un tentativo di comunicare malessere, un segnale che va raccolto. Ma forse il segnale non è "Voglio morire giovane": forse è "Voglio avere davvero diciannove anni".
A novembre una ragazza si è filmata col cellulare di fianco a Justin che dormiva, ha pubblicato il video su Internet, e dopo un minuto era su tutti i tabloid. Non sarebbe poi un'ambizione così strana voler essere un diciannovenne lasciato in pace almeno quando dorme; uno che, se finisce a letto con una coetanea e quella lo fotografa, al massimo si ritrova inviato come messaggio alle amiche, invece che trofeo sulla stampa mondiale.
Forse quel che la foto segnaletica con sorriso forzato di Justin Bieber ci sta dicendo è: "Non ne posso più di essere l'unico diciannovenne cui per una canna non tocca una sgridata dai genitori ma una petizione alla Casa Bianca". Sarebbe una obizione ragionevole, no? Lo troverei molto saggio, se non ne potesse più. Molto più saggio di quanto ci si aspetterebbe da un diciannovenne. 

Bacioni!

Jù.






COSA MI HA INSEGNATO IL CASO STAMINA

Questa settimana ho pensato di fare un pò di cultura.
Niente paura. Nulla di sconvolgente, ho solo condotto una full immersion di cinema, andando a vedere i film di cui tutti parlano. Vorrei raccontarvi che al secondo tentativo sono riuscita a concludere la visione della calligrafica Grande Bellezza senza addormentarmi, che Il capitale umano non c'entra un piffero con la Brianza, che American Hustle è carino ma è sicuramente meglio La stangata, e che il più bel film in circolazione, The Butler, è proprio quello ignorato dalle nomination agli Oscar. Avevo solo voglia di sorridere. Poi sono incappata in un articolo sul caso Stamina pubblicato dalla Stampa di Torino. E ne sono uscita sconvolta.
Si tratta di una lunga lettera scritta da tre scienziati, come si dice, di chiara fama: Elena Cattaneo (nominata senatrice a vita), Gilberto Corbellini e Michele De Luca. I tre sparano a zero contro il programma televisivo Le Iene, che nei mesi scorsi si è occupato in numerose occasioni della vicenda Stamina, dando voce alle famiglie disperate criticando gli esperti anti-Vannoni.
Cattaneo e i due colleghi accusano il programma di aver "manipolato e spettacolarizzato la sofferenza di malati e parenti", di aver "usato" i bambini ammalati alimentando "false speranze" con "instancabile accanimento". E chiedono perentori che "si paghino i danni fatti" anche "davanti a un giudice". La Stampa, correttamente, pubblica anche l'articolata risposta di Davide Parenti, l'ideatore e autore delle Iene.
Non intendo entrare nel merito "scientifico" della diatriba: non ne ho le competenze. Osservo però due cose. La prima: fino a prova contraria, non avendo Le Iene diffamato o calunniato nessuno, quando si arriva a invocare punizioni esemplari contro un'inchiesta giornalistica che semplicemente porta fatti e opinioni differenti dalle proprie, significa avere della libertà di stampa un'idea piuttosto totalitaria. Ma fin qui, transeat: anche chiedere interventi dalla magistratura, in fondo, è un'opinione, e come tale va rispettata.
Trovo più grave la seconda circostanza.
Dalla lettera di Cattaneo e colleghi traspare un'arroganza, una superbia e direi quasi una prepotenza incredibili. Dall'alto dei propri titoli accademici (e politici) si trinciano giudizi assoluti e incontestabili. Come dire: la materia è troppo difficile e delicata perchè possa trattarla chi non fa parte della ristretta comunità dei chierici. Il cosidetto metodo Stamina è una truffa, punto e basta. Perchè? Perchè lo dice la Scienza.
Ora, il punto non è se Davide Vannoni sia un truffatore oppure no. Questo sì lo stabilirà la magistratura, che sta indagando. Ma ammettiamo pure, per ipotesi, che lo risulti davvero, e che le cellule di Stamina non siano altro che un pastrocchio, addirittura dannoso per la salute dei pazienti. In questo caso, chi deve pagare pagherà. Resterebbero comunque alcune domande inevase.
Perchè alcuni pazienti sembrano stare meglio? E, soprattutto, perchè gli scienziati non sono mai andati a verificare questi presunti miglioramenti? Di che cosa avevano paura? Di scoprire forse che la realtà a volte si ribella alla teoria? No, non credo. Credo invece che spesso la teoria basti a se stessa. E che altrettanto spesso sia troppa la distanza tra essa e la realtà.
C'è chi parla della "sofferenza" altrui stando chiuso in laboratorio. E ci sono luminari della medicina che non si accostano ai pazienti. Chi ha avuto in sorte una patologia grave sa di che cosa parlo. Certo, a volte la freddezza, il silenzio, il distacco sono forme di legittima autodifesa per i medici che operano sui casi estremi, ma chi li vive sulla propria pelle può scambiare questi atteggiamenti per disumanità. Se poi le lezioni sulla "sofferenza" arrivano da docenti, storici e biochimici, gente cioè rispettabilissima ma che non sta sul campo di battaglia, bè...
Arrivati a questo punto (comunque finisca, finirà male) che cosa mi ha insegnato la vicenda Stamina?
Le istituzioni, le agenzie, le commissioni, i cattedratici e i Grandi Maestri scendano dal piedistallo, escano da convegni, uffici e laboratori, si confrontino con le lacrime delle famiglie, si sporchino le mani e coltivino il dubbio. Alcuni lo fanno, certo. Ma sono ancora troppo pochi. Chi lo ha fatto, per esempio, con Celeste e Sofia, le altre "vittime" di Vannoni? A quanto pare, magari con inesattezze ed errori, soltanto i giornalisti. E loro, i depositari della Verità?


Bacioni!

Ju.







IL LUPO DI WALL STREET

E così questo era il famoso Lupo di Wall Street.
Uscendo dal cinema in una notte provinciale, ascolto e mi ascolto fare i commenti più scontati. "Dura mezz'ora di troppo". "Però è una festa cinematografica e ha saputo usare tutti i possibili linguaggi visivi". "Con lui DiCaprio è davvero cresciuto". " E che coraggio farsi vedere con una candela tra le chiappe". "Troppa coca, troppo sesso". "Ma è questo che si compra chi ha troppi soldi? Non hanno ancora inventato niente di meglio?". "E il potere?". "Tutti quelli che l'hanno lo usano per ottenere coca e sesso". "Si, però la storia del film ti dimostra che fine si fa". "Manco tanto brutta: quello che si è rivenduto i diritti della sua storia di truffatore, mentre le sue vittime..."

PAUSA PUBBLICITARIA.
La sola voce nuova della narrativa internazionale: Jennifer Egan. Tutti i suoi libri, da Minimum Fax.

Cammino controvento e penso che c'è qualcosa che non torna. E' nel modo in cui ci raccontano la storia.
Ci indicano il dito che indica la luna e noi guardiamo il dito, non per inclinazione ma per educazione.
Metti che io torno a casa e ho un bambino di dieci anni. Questo mi domanda:"Di che cosa parlava il film?" Io rispondo:"Di un signore che diventa cattivo perchè vuole troppe cose e per averle se ne frega di tutte le regole. Ma alla fine lo prendono e lo mettono in prigione". Quel bambino crederà che esiste un sistema. Al suo interno possono generarsi delle anomalie per colpa di un virus, quello dell'avidità, che può essere isolato. Il sistema prevede infatti degli anticorpi, che individuano le cellule infette, ne bloccano lo sviluppo e consentono all'organismo di risanarsi. Che favoletta.
E pensare che due scene del film raccontano la verità. Nella prima DiCaprio, nei panni di Jordan Belfort, spiega alla sua squadra di broker come intortare il cliente. Prende il telefono e convince un qualsiasi postino o elettricista a investire i risparmi in azioni spazzatura. Nel farlo mima i gesti osceni e, appena riappeso, insulta quello che poco prima era un amico da chiamare ossessivamente per nome.
Ora: il dito è questo broker fuori controllo, perfettamente consapevole che sta proponendo investimenti senza un dopodomani.
Ma la luna è la persona all'altro capo del telefono, sono le migliaia di persone all'altro capo del telefono. Se i Belfort del mondo avessero infarloccato un risparmiatore a testa sarebbe diverso. Lo hanno fatto con migliaia ciascuno, milioni in totale.
Un coscienzioso artigiano e padre di famiglia riceve una telefonata da uno sconosciuto che gli promette rendite del 50% su titoli mai sentiti nominare e gli affida il portafoglio? Davvero? Non è solo una scena del film. E' accaduto: una, cento, un milione di volte. Madoff praticava lo schema di Ponzi. Il suo seguace dei Parioli pure. Interessi semestrali in doppia cifra. E ci sono caduti a frotte. Gente istruita, persone altolocate.
Mai sentito Ponzi? Allora vi meritate Alberto Sordi. E vi meritate Vanna Marchi. Ho visto sfilare al processo le "vittime" di Nostra Signora delle Alghe. Le spedivano migliaia di euro per avere del sale da sciogliere in acqua. Lo scopo della pozione non era guarire un parente terminale: in quel caso ogni credulità sarebbe stata scusabile. Era ottenere una vincita al lotto. Ma se lo meritavano il Mago do Nascimento!
Se l'avidità appartenesse soltanto al fantasioso personaggio di Gordon Gekko (il protagonista di Wall Street) potrebbe essere, come lui sostiene, "una cosa buona". Perchè sarebbe estirpabile, dando un esempio. Se appartiene a milioni di persone, diventa un difetto della specie. Non la si combatte arrestando Jordan Belfort o Vanna Marchi. Bisognerebbe dire, a tutti i cresciuti bambini di cinque anni, la verità (ma davvero non la conoscono già?)
Scorsese lo fa, nell'altra scena chiave del film. La mette però all'inizio, cosi non sembra la morale, ma un trascurabile prologo offuscato dal "lieto fine". DiCaprio-Belfort va a pranzo con il suo mentore, impersonato da Matthew McConaughey. Tra un martini e l'altro quello gli rivela i fondamenti del sistema. Non ci sono regole nè strategie. Non ci sono virus o anticorpi. Nè buoni nè cattivi. E' tutto fasullo. E' soltanto aria. Nella versione originale usa un termine slang reso famoso da un altro film, Donnie Brasco. Al Pacino mostra a Johnny Depp un gioiello e quello gli dice:"Fugazi", fasullo. "It's all fugazi", spiega il mentore di Belfort. Lo dice sorridendo, muovendo le mani come braccia come se svolazzasse sopra il Mar dei Fugazi. "Il Nasdaq sta risalendo verso la storica quota 5.000". "Le nuove Ipo hanno fatto boom". "Due cucchiai di zucchero in un bicchiere di lavanda, poi misura la lunghezza del riflesso e giocati la cifra sulla ruota di Venezia". "Fugazi, fugazi, it's woozy, it's wazy, fairy dust". Polvere magica, residui di una favola senza lieto fine.
Belfort, Madoff, Ponzi, la Borsa, il casinò di Campione, la libera iniziativa in libero mercato, gli organi di controllo, il job act, the other job. Fugazi. Polvere senza magia.
All'ingresso di Wall Street andrebbe messo un cartello di pericolo. L'indicazione non dovrebbe essere: attenti al lupo. Piuttosto: attenti alle pecore.

Bacioni!

Jù.