MEZZOGIORNO

Esamino con i Coldplay che invadono tutta la casa le pagine di questo diario virtuale. Perchè il confronto diretto con se stessi è sempre un mestiere faticoso.
A volte penso che a tenermi in piedi sia semplicemente questa pazzia, un oceano dentro alle vene.
Non mi piacciono le persone ossessive, pressanti e invadenti perchè in qualche modo ho sempre avuto l'impressione che, nella loro atavica mania, fossero in realtà le uniche in grado di interpretare i miei codici, a volte persino di prevederli. Sarà che tra folli, seppur di diverso genere, ci si riconosce.
Io di natura sono un'indipendente. Posso essere la pagliaccia della festa, amare la compagnia degli amici e godere della presenza di una folla, ma arriva sempre il momento in cui ho bisogno di stare sola. Non importa dove e non importa a fare cosa. Sola.
Lontana dagli sguardi indagatori, dalle domande di circostanza e dai commenti superflui. Sola.
Presa solamente dal ritmo del mondo che scorre senza di me, assorta nell'alternarsi dei pensieri scollegati che si sussegguono viaggiando a mille allora, rapita da un sano egoismo che mi porta a elaborare piani e a incastrare progetti dei quali nessuno può sapere. Sola.
La gente fatica a capirlo, c'è chi mi prende per lunatica, chi mi crede scostante, chi pensa che io cerchi una casa più grande solo per megalomania.
La casa perfetta ha una stanza in più.
Non ci vuole molto. Bastano una birra e l'iPod caricato al 100 per cento, la musica giusta e nessuno intorno, e quello diventa già il MIO spazio. E sto bene così. Venti minuti, un'ora o tutta la notte senza dormire.
Ho salvato situazioni delicatissime grazie a questo metodo. Litigi in procinto di esplodere, racconti noiosi che non avrebbero portato a nulla, serate divertenti interrotte bruscamente prima che si lasciassero dietro solo uno strascico di malinconia profonda. Tutto passato.
Grazie a questa necesssità e capacità di stare sola. E' come se mi ritirassi in una terra di mezzo in cui mi concedo soltanto quello che mi piace e quello che mi va nel tentativo di stare bene, io e basta però, senza dovermi piegare al compromesso di far felice qualcun altro.
Forse è il forte senso del dovere inculcatomi da mamma che mi porta a vivere costantemente preoccupata dell'umore di chi mi sta intorno, però negli anni è sempre stato così, e così rimane.
Allora arriva sempre il momento in cui per risolvere tutto ho bisogno di stare un pò da sola. Vedo passare di fronte a me un circo la cui carovana prevede solo numeri e personaggi che mi rendono serena...e tutto fila liscio.
A volte alterno una canzone a una telefonata, poi scrivo quelle che diventeranno le prime righe di un post, apro un'altra lattina di birra, passo quindi a un'e-mail, mangio lo yogurt con gli smarties, mi concentro sulla battuta di un film, canticchio un'altra canzone. E così il tempo passa e la serenità mi rende piena.
Ecco a cosa serve una stanza in più: è uno spazio ancora più mio dentro la casa e nella mia testa.
Una persona ossessiva, pressante e invadente non lo capirebbe, quindi io non riuscirò mai a stare accanto a certi maniaci.
Chi mi conosce e mi vuole bene ormai lo sa, non è una novità ed è semplice: non bisogna interferire in questo equilibrio ormai così ben collaudato.
Forse il mondo non è fatto per certi piccoli pazzi...ma in fondo tutte le persone migliori che conosco lo sono almeno un pò.

LAY LOVE

Io e Lui eravamo inseparabili. Mi aveva fatto conoscere Bruce Springsteen. Dopo il primo riff che sentì, ne fu rapito a tal punto da non chiedere più alcun riscatto.
Ci piaceva il cinema coi suoi sogni imbizzarriti, talvolta più reali della realtà che ci circondava.
Ci univa la passione per il calcio. Io per la Lazio, Lui per la Juve, ma soprattutto per la potenza e il tocco fine. Il sudore e la maglia strappata. La precisione e la grinta. Il coraggio e il valore. Baggio e
Boksic.
Avevamo entusiasmi come cavalli selvaggi scappati dal recinto per correre sulla sabbia.
Leggevamo gli stessi libri quei mesi.
Kerouac e Salinger, Bosco e Roddy Doyle.
Due volte Nelle terre estreme.
Ci scambiavamo le giacche di jeans scolorite.
Facevamo scherzi macabri a malcapitati infermieri ( prontamente ribattezzati nemici ), del tipo far penzolare il braccio di un bambolotto dal di fuori del letto su un corridoio deserto di un ospedale, sul ciglio della finestra del quinto piano o impiccare bamboline alle travi dell'armadio. O lasciare messaggi scritti con parole di giornale ritagliate, sul comodino prima di andare a farci un giretto.
L'America la sognavamo non solo di notte.
Speravamo che anche lei, qualche volta annoiata, sognasse noi.
Una domenica di marzo, nell'atrio dell'ospedale, avevamo inventato la corsa dei carrelli. Uno spingeva, l'altro stava sopra, seduto o in piedi. Eravamo in quattro quel giorno con Dervy e Ste.
Pochissime persone a ridurre lo spazio utile della pista.
Era il mio fidanzato. Era il mio migliore amico.
Non fece in tempo ad arrivare ad aprile che non era più niente di tutto ciò.
Come vanno in fretta i ritmi quando sei un ragazzo.
Cambiano le cose più velocemente della lancetta dei secondi.
E lui ora era diventato per me da uno dei pochi, il solo.
Tutto per una malattia.
A quell'età si riesce persino a essere gelosi di Dio se ti ruba il fidanzato.
Così fu per me, con gli altri intenti a dirigere catechesi su "Purtroppo è la vita, mi dispiace" o comizi su "vedrai, un giorno non ci penserai più".
Ma quando quello che senti ha più voce di quello che gli altri ragionano, lo stadio può pure restare vuoto.
L'amore batte la rabbia anche fuoricasa.
"Non credo a una parola di quello che dite".
Parole inghiottite da un rancore visibile, quasi palpabile che mi lasciarono spogliata di ogni cosa. Come cospargersi la lingua di sale e poi bere un thermos di caffè.
Lì pensai che se mai fossi arrivata davanti a un prete, avrei dovuto rivedere la lista degli insulti da dirgli.
"Non condivido ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo", disse Voltaire.
Mi ha sempre colpito questa freccia scoccata, nonostante alcune persone si adoperino coi mezzi più subdoli per parlare di te con chiunque gli capiti a tiro, comunque.
Ma il loro vino è fasullo. E' allungato con acqua, come fanno i bravi ragazzi vestiti di bianco che ti suonano il citofono la domenica mattina per avvisarti che l'apocalisse è in città.
Io credo che lui non mi dicesse tutto e si comportasse come se la leucemia fosse un equivoco risolvibilissimo, per sentirsi meno solo.
Per me era vero come una delle mie due mani. Ora era pur sempre vero, ma nel catalogo fuori stagione della mia stima era vero come un semaforo sul Cervino. Vero come un dollaro italiano.
D'altra parte io, nella sua personale classifica, dovevo essere passata dall'impersonificare Bob Dyland a quella che gli cantava a fianco di notte le canzoni di Max Pezzali nei primi 883.
Così mi attaccai a lui come una figurina, cercando di proteggerlo alla meglio.
Non ce l'abbiamo fatta. Non siamo rimasti attaccati. Ci scollammo dal nostro album delle meraviglie perchè così, evidentemente, doveva andare.
Ma lui non aveva ragione lo stesso.
Il perdono cerca di chiudere il buco che il rancore insiste ad allargare.
E' una questione di fiducia. Quando porti qualcuno in cima alla tua montagna e gli mostri quello che vedi del mondo da lì, gli apri la finestra sul tuo universo, affinchè anche Lui la contenga nel suo sguardo.
Se poi Lui ( che poi non è Lui ma qualcun'altro che devo ancora capire bene chi sia) decide di tornare a valle, sarà difficile che ti venga voglia di riportare su qualcun'altro a vedere quanto è più largo adesso il tuo orizzonte.
Il male che senti è lungo a passare.
Non puoi mettere l'acqua ossigenata sulle ferite interne, sono coperte dalla pelle, dai vestiti e più ti adoperi per nasconderle sotto i tuoi strati, più pesano e bruciano dentro, dove non le puoi toccare, curare. Dov'è difficile guarire.
Tutte le falsità e i biechi sorrisi da cellophane li porti all'autolavaggio dell'anima.
Ma la fiducia non so più dove l'ho messa. Eppure era sempre con me, una volta.
Quando l'America era il nostro posto, ci sporcavamo di terra dietro a un pallone bucato, Springsteen cantava di eroi normali come noi e avevamo giurato e spergiurato che niente, nessuno, mai, ci avrebbe potuto separare.
Buon viaggio, mio Tu.

La Jù.








LA NEVE SUL MARE

Non lo posso sopportare che due persone non si parlino.
Che non si parlino più. Un uomo e una donna che si amavano per giunta.
Gente che si scambiava telefonate roventi o anche solo appassionate durante la notte sbancando i centralini poco tempo prima. Non lo sopporto.
Che mancanza di curiosità, di sensibilità, che buio, che cecità, che vera decadenza.
Qualcuno si trincera dietro un silenzio ottuso, altri ( altre ) non danno notizie di sè forse confidando nell'antico, nefasto effetto dell'assenza che è una vera aggressione.
Credo bisogna aver molto amato una persona per diventarne nemico a tal punto.
Siamo un antico popolo di scaltri diplomatici, nessuno quanto noi è maestro nell'arte della mediazione, del conferire pesi differenti alle parole a seconda delle circostanze. Siamo farmacisti, siamo alchimisti.
Tentiamo tristi bracci di ferro, ostentiamo indifferenza e fingiamo durezza, siamo inclini alla fuga, alla vigliaccheria, all'allontanamento.
No, è necessario parlare, anche quando le idee si fanno confuse ( è di rapporti d'amore che sto trattando), quando si diventa differenti da se stessi, peggiori, e non ci si riconosce più.
Anche quando si ritiene che "qualcuno" ci abbia rapinato, scippato il nostro sentimento, le idee migliori, i segreti e la vita, tutto.
Eh no! Bisogna riprendere in mano quei telefoni, volare ancora in macchina di notte da una città all'altra, se necessario, a combattere la mediocrità del silenzio, l'astio, l'orgoglio, la convinzione di aver in tutto ragione.
Ragione di che poi?! L'amore è sangue che scorre e gonfia muscoli e vene, chi se ne frega dell'orgoglio, eppoi tutto finisce da sè senza bisogno che noi uomini e donne poveri diavoli ci diamo tanto da fare per squilibrare i pesi di quello che davvero vogliamo e sentiamo. Non si mettano contro, non diventino nemici almeno quelli che si amano ( e lo sanno ), non perdano tempo, non peggiorino se stessi: abbiamo già fin troppe battaglie se non vere e proprie guerre da combattere fuori di noi stessi, nel mondo di tutti i giorni.
Basta una telefonata notturna, una sorpresa, anche solo una parola, basterebbe una breve lettera se fossimo ancora capaci di scrivere e non lo siamo.
Un atto di ragionevolezza, un atto di umiltà, sarebbero così necessari. Sarebbe forse vero coraggio.
Viviamo invece di atti di orgoglio, cioè di rinuncia, ci chiudiamo da soli alle spalle la porta della nostra cella e per maggiro sicurezza ingoiamo la chiave.
Che stupidi, basterebbe parlare. Uomini e donne intendo, ragazzi e ragazze, in ogni tempo e luogo, in qualsiasi circostanza e senza reticenze nè giustificazioni.
Non lo posso sopportare che due persone non si parlimo.
Almeno quelli che si amano ( e lo sanno ) facciano qualcosa.

La Jù.


E QUALCOSA RIMANE

Sono passati esattamente tre anni e tre giorni da quando sono entrata per la prima volta da insegnante in una classe: come si fa in questi casi, vorrei dire "sembra ieri" anche perchè oggi, nella vita faccio tutt'altro ma in realtà è trascorso così poco tempo che mi ricordo persino i motivi che mi avevano spinto a inviare quelle cento buste a cento scuole con il scarnissimo curriculum e la proposta "se serve un aiuto, anche breve, io sono qui". Pensavo che nessuno avrebbe risposto, e che in ogni caso si sarebbe trattato di un momento di passaggio, una tappa intermedia prima di trovare un lavoro vero e ben pagato. Credevo che il destino mi aspettasse già da qualche altra parte, a una tavola apparecchiata sountuosamente, che di sicuro sarei diventata la giornalista di punta di qualche giornale o di qualche casa editrice, o una sceneggiatrice di grido, oltre che un acclamata musicista. Avevo bisogno di guadagnare ogni mese un pò di soldi, e la scuola mi sembrava al momento un ripiego dignitoso.
Arrivò una telefonata da una scuola elementare di paese, gestita da una simpatica signora che aveva vissuto sempre lì e che aveva sempre sognato di dedicare la sua vita a una bizzarra impresa pedagogica. Nella scuola c'erano pochi disegni, il più bello era quello di una bambina che aveva disegnato una gabbia con un lupo siberiano e naturalmente c'erano gli studenti: abitavano un altro pianeta, eppure mi sembravano troppo diversi da me, forse perchè avevano solo pochi anni di meno. Provavano a recuperare il tempo perduto tra le figurine dei calciatori e una partita a pallone, di studiare non avevano molta voglia, ma erano comunque preoccupati per il futuro, per la vita che è sempre in salita e che va pedalata metro dopo metro.
Faccio la supplente per un anno-mi dico- faccio un'esperienza nuova, mortifico un pò il mio ego, pendolo avanti e indietro tra la provincia e l'indefinito, studio ancora un pò insieme a questi ragazzi che potrebbero essere i miei fratelli e le mie sorelle più piccoli.
Subito mi è piaciuto tornare in classe, questa volta dall'altra parte della cattedra. Osservavo i miei studenti, intuivo istintivamente la fortuna esistenziale di frequentare grazie a loro due tempi diversi, forse addirittura opposti, perchè ogni adolescente contiene fisiologicamente l'eternità, si confronta con le domande assolute, chi sono, dove vado, che senso ha studiare, perchè mi sono innamorato di quella che non mi vede proprio, perchè soffro così tanto, perchè penso alla morte? E d'altronde l'adolescente è una spugna che si imbeve dell'acqua limpida e sudicia del presente, vibra per un paio di pantaloni alla moda, trasuda attimi fuggenti, canta le canzoni dell'estate e ama e odia il campione del momento. E' fuori dal tempo e contemporanemanete ne è il figlio prediletto. Questo mi emozionava, mi permetteva di restare vicina alla ferita o alla sorgente originaria e di aggirarmi costantemente sulle onde che arrivano e passano.
Anni fortunati, quelli, in cui trovare lavoro non era difficile come oggi: così un giorno mi hanno chiamato da un'altra scuola, dopo qualche mese un'altra ancora e, bontà loro, mi hanno dato in comodato d'uso gratuito una cattedra nella scuola pubblica da dove me ne sono andata non perchè fossi una fannullona ma perchè non avevo i requisiti per restarci.
La scuola è profondamente cambiata dopo il '68 credo, quei ragazzi idealisti e generosi chiedevano di aprire le porte al mondo, chiedevano di aggiungere ai soliti programmi quanto di emozionante circolava nello spirito di quegli anni. In fondo se la mia vita è segnata dall'amore per i libri, la musica, l'arte, il gran merito ce l'ha la mia insegnante di lettere del liceo, Irene Sestili, che ci parlava di Beckett, Camus, Coltrane, senza per altro trascurare Poliziano e Parini. Quella porta tra la scuola e il mondo è rimasta spalancata, non poteva essere diversamente, e quando anch'io sono diventata insegnante ho visto cosa il mondo, anno dopo anno, aveva scaricato in classe. E' stata una lenta discesa agli inferi: la società dei consumi s'è fatta più furba e più aggressiva, ha azzannato dolcemente i giovani e gli ha versato dentro il veleno del desiderio. Chi pensa spende poco, chi si ferma a leggere, a coltivare la propria individualità, a sognare l'impossibile, non ascolta le sirene che cantano la canzone della felicità facile facile, che rallenta dentro la malinconia dell'adolescenza non bada alle luci del paese dei balocchi.
In un anno ho visto ragazzi smarriti. La scuola ripete la solita lezione, una storia fatta di sacrifici, solitudine, concentrazione, fatica, ma chi vuole più dare retta a queste parole quando dall'altra parte scintilla l'oro di Eldorado?
"Maestra, la saggezza oggi non serve, è una cosa del passato", mi aveva detto un alunno bellissimo che sognava di fare il contadino "basta avere tanti soldi".
"Scrivete sul quaderno questi titoli di libri scritti da scrittori inglesi, li trovate tranquillamente in biblioteca in italiano, per chi quest'estate avesse voglia di leggere qualcosa di interessante", dico e quasi tutti i miei alunni avevano preso il telefonino.
"Ragazzi, scrivete questi titoli", e una simpatica ragazza dagli occhi azzurri ha replicato seria:" Li sto scrivendo al cellulare così stanno al sicuro".
Così insegnare era diventato ogni giorno più difficile, mi sembrava quasi di lavorare fuori dal mondo, da un mondo che rotolava gioiosamente verso la rovina. Però avevo tenuto duro, e le mie colleghe facevano altrettanto: mi sembrava di seminare nel vento, nel nulla, nell'indiffirenza, ma in fondo sapevo che non era vero. Sepolta sotto tonnellate di immagini bugiarde e seducenti, una zolla nella mente dei ragazzi accoglie, incamera, trasforma segretamente.
Qualcosa è fiorito, se non oggi domani, se non domani tra dieci anni, quando tutta questa acqua che brilla d'olio e sozzerie si ritirerà.
Bisogna avere fiducia, insistere, ricominciare, anche se a volte sembra che non ci sia più niente da fare, che la partita sia perduta, che ogni forma di consapevolezza sia stata schiacciata per sempre sotto i tacchi di una follia ballerina. Intanto il ghiaccio scricchiola, cede, è già molti sono scomparsi nel buio e nel freddo ma vedersi arrivare ancora a casa le cartoline dal mare dei tuoi ex alunni, essere invitata a cena dalle loro famiglie come se tu fossi una figlia acquisita, solo un pò più grande, cercare di rispondere alle loro disarmanti domande sul perchè un amore sia finito, sorridere alle loro parole, che siano scritte, cantate o nascoste è un privilegio a cui non vorrò mai rinunciare.

La Jù.

STATO DI NECESSITA'

L'ho scoperto quasi per caso ritrovandomi a collezionare nel tempo le risposte preziose che mi ha dato ogni volta che ero triste. E anche quando ero felice.
In effetti è vero: per me, scrivere, è la RISPOSTA.
Risposta a tutto, in ogni senso, universalmente.
Non è vero che per scrivere si deve necessariamente essere tristi. E' vero invece che bisogna essere motivati da un sentimento forte, condizionante.
Può essere la malinconia, ma anche l'allegria, la tristezza o l'eccitazione. Si può aver voglia di urlare per disperazione o per entusiasmo. Ecco, è lì che per me arriva il bisogno di scrivere. Un qualcosa da scrivere, ascoltare, gridare, leggere, cantare, fischiettare, mugugnare, regalare, storpiare, reinventare.
Lo scrivere è tutto ed è di tutti.
Sono gelosa e ammetterlo mi costa, ma uno bravo, una volta che è stato scritto e pubblicato, diventa del mondo intero. Mi consolo pensando che, secondo questa logica, anche quello che succede agli altri diventa un pò mio, una volta lasciato libero di correre...e questo mi piace.
Ho fame di scrivere, ho sete di scrivere, faccio colazione con le parole e me le sogno di notte e di giorno. Bramo l'uscita dei bei libri nuovi, e la soddisfazione più grande che mi sono tolta, quando ho raggiunto l'indipendenza economica, è stata potermi comprare tutti i libri e la musica che volevo.
Ricordo che da piccola risparmiavo anche le mille lire per riuscire ad acquistare almeno un libro al mese, e se riuscivo a permettermene due ero davvero entusiasta. A Natale, poi, era un tripudio perchè la lista dei regali era tutta incentrata sui libri: libri, mini-libri, penne, quaderni, abbonamenti a qualcosa, tastiera, chitarra. Ogni anno cresceva la mia passione...e con lei il mio mini-studio d'incisione di pensieri.
Non ho mai pensato di saper scrivere, e la cosa oggi mi fa sorridere perchè in realtà non sognavo di aprire un blog e scriverci su. Pensavo alle parole come a un mezzo utile per far "suonare" le cose che scrivevo e che poi qualcuno avrebbe magari cantato, non importava se ero io o qualcun'altro, l'importante era il "feeling".
Ancora adesso è così. In vita mia ho preso poche lezioni di scrittura e appena ho capito i meccanismi della vita ho mollato tutto, un pò per pigrizia, un pò per mancanza di tempo ( soprattutto per pigrizia, però). Non consiglierei a nessuno di fare lo stesso, ma adesso mi sentirei disonesta se raccontassi di aver dedicato la mia adolescenza allo studio della tecnica di scrittura.
Tutt'oggi non credo di essere una brava a scrivere, anzi, la verità è che provo un pò di imbarazzo quando qualcuno mi dice che ama ciò che scrivo. Mi sento quasi in colpa...perchè so che è la mia mano "maleducata". E sorrido.
Sorrido perchè so che nell'arte l'unica cosa che conta, alla fin fine, è sempre l'emozione e l'onestà con cui la fai. E io sento di non aver mai mentito, mai simulato: la penna e il foglio di carta sono da sempre i miei fratelli, veri alleati. Gli unici in grado di sostituirsi ai discorsi e, se letta, ogni parola vale sempre un pò di più.
E' così, è come se le parole mi proteggessero.
Sento che gli effetti negativi di tutti gli anni di chiusura e rifiuto verso il mondo sono stati in realtà stemperati dalla capacità che ho avuto di creare un mondo solo mio fatto di parole, canzoni, pensieri, in cui tutto aveva un senso, un linguaggio, una completezza che non andavano toccati.
Mi fa paura, adesso, trovarmi qui a scriverlo, il timore è di rovinare tutto.
Qualcosa mi dice che dovrei rimanere com'ero e tornare a vivere chiusa in quel microcosmo in cui ci siamo solo io e le mie parole, perchè fuori di lì non so cosa potrebbe succedermi. Ma quello è un mondo a metà, seppur affascinante.
Non ci si può votare al dolore, non c'è niente per cui valga la pena farlo.
Quindi il mio è un rischio, e lo corro certa del fatto che esiste un universo fatto di parole e musica e solo di parole e musica in cui si può vivere anche senza dover rinunciare a tutto il resto.
E sto zitta mentre penso che anche questa esperienza mi ha già insegnato qualcosa...che un giorno capirò.
Con le "mie" parole, in questi anni, è stato come vivere su un ottovolante, amplificando ogni emozione, il bello e il brutto...forse per paura di perdersi qualcosa di importante.
Quella A maiuscola scritta sul quaderno con in copertina i Power Rangers è stata la prima di tante altre che gelosamente conservo tra i quaderni infiniti che ho scritto: li rileggo tutte le volte che, come quel primo giorno di scuola, mi sento persa. Perchè di giorni neri ce ne sono tanti e ce ne saranno, ma so per certo che c'è qualcosa pronto a farmi sorridere e capace di colorare il buio. Ancora oggi, dopo tanti anni, ritrovo la timida compagna di banco che contava con le dita dietro l'astuccio, e ancora oggi la adoro almeno un pò.

La Jù.