#CHILHAVISTO

Quante cose dobbiamo conservare? E di quante cose abbiamo bisogno per ricordare? E quante devono essere di continuo a portata di mano? L'era di Internet ci ha obbligato a tenere tutto: anche la mail più insignificante, la fotografia casuale, magari mossa e scura scattata quasi per gioco, parole scritte in fretta in una nota sullo smartphone, il video di cinque secondi che non sai neppure perché lo hai fatto. E poi tutti i copia e incolla di qualsiasi cosa che leggiamo e pensiamo potrebbe servirci, e le foto che non sono le nostre, quelle che troviamo sul web e ci colpiscono. Conserviamo tutto quello che possiamo mettere tra le nostre cose, con un movimento delle dita sul mouse o sullo schermo touch. E questo è il nostro mondo. Un mondo digitale di informazioni continue. Conserviamo tutto perché non esiste più lo spazio o, per dirla in modo paradossale, perché non c'è né troppo. Fare pulizia su un computer è un gesto più simbolico che reale. Le cose della nostra vita si possono tenere per sempre, se uno lo vuole. Diecimila mail non pesano nulla e neppure centomila fotografie. Se non fossero posta elettronica e immagini digitali avremmo bisogno di cantine e di solai. Non buttiamo niente perché non c'è la necessità. Ma non buttare via non significa conservare.
Se io non butto niente, per un facilissimo ragionamento logico, non conservo nulla. Conservare è avere cura, è scegliere le cose da tenere e scartare quello che non serve, è decidere cosa portarsi con sé e cosa invece non può entrare nel proprio spazio privato. Uno spazio privato che può essere una casa, ma anche una borsa.
Le immagini del potere di un tempo hanno sempre mostrato gli uomini importanti con una borsa di documenti, forse anche con degli oggetti personali.
L'espressione comune era: non si separa, o nei casi drammatici, non si separava mai dalla sua borsa. Tutti sappiamo di quella di Aldo Moro, di quella leggera di Enrico Cuccia, di quella sparita di Paolo Borsellino. La borsa era uno spazio, dove mettere cose importanti da portare con sé. Oggi, se va bene, dentro quello spazio c'è un luogo ulteriore, che è più ampio dell'interno della borsa: perché è quello di un tablet, di un portatile, di vari smartphone, collegati a un cloud, che si portano dietro tutto e che rendono la borsa non più un'unità di luogo ma una tasca come un'altra dove mettere una cosa che ti porta altrove, e ti permette di consultare e leggere tutto, ti mostra l'universo, l'infinito, il possibile, sempre. Non ho quelle fotografie con me, non ho quei documenti con me, devi aspettare che torni a casa per ritrovarli e vederli...è frase sempre più rara.
Ma in questa fede verso l'infinito, in questa idea ingenua per cui oggi siamo in grado di essere al centro della terra e ai confini dell'universo, oltre l'orizzonte degli eventi, e in questa fede digitale dove tutto si crea e nulla si distrugge arriva Vint Cerf, Chief Internet Evangelist di Google, un uomo molto competente e importante e dice: il digitale non è eterno. Domani tutti i documenti che teniamo sui nostri dispositivi potrebbero diventare illeggibili. Le mail, le foto, i video e quant'altro.
Se tenete a una foto: stampatela. La sappiamo da anni. Lo sanno anche i bambini. Il figlio di una mia amica, di soli sette anni, non capiva cosa fosse quel piccolo simbolo che si trova nel programma word, ovvero l'icona per salvare il testo dopo che l'hai scritto. Raffigura un floppy disk stilizzato ma il figlio della mia amica non ha mai visto un floppy disk, perché non esistono più. E sono esistiti soltanto per pochi anni. Dentro il nostro piccolo universo abbiamo preteso di metterne un infinito che non sappiamo di cosa sia fatto. Ci siamo illusi che conservare equivalga a ricordare. E abbiamo dimenticato cosa significhi davvero saper ricordare.


  CANZONI CONSIGLIATE: Walden, Clark Kent & Phone Booth + Alfonso, Levante + Talk about you, Mika.
La musica ha per me il potere di accelerare la creatività, di spingere le emozioni in territori sconosciuti, vicino alle sorgenti magiche dove tutto diventa fantastico.

#AMORECRIMINALE

"Heathcliff sono io", confida alla domestica che l'ha cresciuta, ma soprattutto al suo cuore agitato, la Catherine di Cime tempestose, nella pagina più straordinaria del più straordinario trattato sull'inevitabilità e la potenza di certi amori che sia mai stato scritto.
Non ci è dato sapere se Heathcliff e Catherine abbiano mai fatto l'amore ma, da quello che scrive Emily Bronte, pare proprio di no. Non si scambiano neanche un bacio, ognuno dei due sposerà un'altra persona e con un'altra persona avrà dei figli. Eppure, quando il marito impedirà a Catherine di continuare a frequentare Heathcliff, Catherine ne morirà.
E, nonostante questo, Heathcliff continuerà a cercarla, con la selvaggia intensità del trovatello che è stato e che a tre anni scopre in quella bambina, istintivamente, la prima e unica possibilità di non sentirsi perso nel mondo. Perché, anche se una famiglia lei ce l'ha, Catherine è come lui, è abitata dai suoi stessi lampi, dal suo stesso furore. Perché Catherine è lui.
Malgrado questo, proprio per questo, è meglio per loro, e per chi li circonda, che i due vengano separati.
Che mettano su famiglia con qualcuno in grado di contenere quei lampi, quel furore.
Peccato che, a tu per tu con il suo placido marito, Catherine non si senta per niente al riparo da se stessa: ma, anzi. Sia più che mai inquieta e in balia dei suoi mostri.
Heathcliff certo non avrebbe potuto e non potrebbe mai darle serenità: è irrazionale quanto lei, e inoltre è violento, è sadico, vendicativo. Ma, come un medico che, per individuare dov'è il nostro misterioso problema, ci spinge con forza l'addome (fa male qui?), lo stomaco (e qui?) e il petto (qui? fa male?), riesce a fare qualcosa di diverso e forse di più importante rispetto a metterla illusoriamente in salvo.
Le rivela dov'è il suo misterioso problema.
Dov'è che fa male.
Se c'è una cosa che in questi ventotto anni ho imparato sull'amore è che non tutti possono permettersi il lusso di una storia bella, che rafforzi la parte più luminosa di noi e le consenta di esprimersi al meglio.
Bisogna avere la fortuna di non avere troppi lampi, dentro.
Di non avere (la coscienza di avere) troppo buio.
Oppure bisogna rimboccarsi le maniche, ed essere talmente determinati da sfidare e provare a controllare - però prima di tutto da soli, perché è solo da soli che ci si mette davvero in salvo - quel temporale.
Amy Winehouse sicuramente non aveva quella fortuna, e purtroppo non ha avuto il tempo per trovare quella determinazione, che arriva quasi sempre in soccorso quando si è toccato realmente il fondo.
Se fosse sopravvissuta a quella maledetta notte, io mi ostino a credere che ce l'avrebbe fatta. Che lo schiaffo di quel rischio l'avrebbe risvegliata e che le avrebbe permesso, passo dopo passo, di tornare faticosamente, e una volta per tutte, dal buio.
Ma è andata come è andata. E l'amore che ha segnato la sua breve vita, così disperata e così eccezionale, non poteva che essere come è stato quello con Blake Fielder.
Un amore disperato, un amore eccezionale.
Un amore senza nessun carnefice, ma fra due vittime, ognuna di se stesso.
Un amore nato da piccoli, come quello fra Catherine e Heathcliff: perché a nove anni Blake si taglia le vene per convincere sua madre a lasciare il patrigno, e a quella stessa età Amy assiste allo sgretolarsi della sua famiglia. Anche se si incontrano più in là con gli anni, insomma, sono stati chiamati tutti e due prima del tempo a rinunciare all'infanzia, e sono destinati così a trascinarsela dietro e dentro, a rimanere bambini marci anziché diventare un uomo e una donna.
Un amore dunque infinito: perché le storie d'amore belle finiscono quando, semplicemente e terribilmente, finisce l'amore.
Mentre le storie d'amore sbagliate finiscono quando smettiamo di essere sbagliati noi.
Cioè mai fino in fondo.
Amy era evidentemente Blake: che i morti riposino in pace.
Blake è e sarà sempre Amy: i vivi hanno già il loro tormento.
Smettiamola, almeno noi, di infierire.


   CANZONI CONSIGLIATE: Back to black, Amy Winehouse + 20Sigarette, Marco Mengoni.
Nella vita non raccogli ciò che semini, raccogli ciò che curi.