HELLDORADO

La mia è la generazione di chi vivrà peggio dei suoi genitori, la generazione che non è nata con Internet, ma è cresciuta con lei, ha raggiunto la maturità con lei, io con Internet ho un rapporto tenerissimo.
La mia è la generazione del terrorismo internazionale, la generazione della globalizzazione, la generazione che non sogna più Hollywood, ma Londra, Parigi, Tokyo, Singapore, la generazione dei trader rimasti senza Torri Gemelle.
La mia è la generazione che ha sognato Step e Babi, e la soluzione scientifica al bisogno del tutto naturale di disporre di una piscina a bordo di un airbus, la generazione dei voli low cost e di quelli charter, la generazione degli esagerati gioielli della Breil e dei talk show.
La mia è la generazione che ha perso Marco Simoncelli e riscoperto Amy Winehouse nella stessa occasione.
La mia è la generazione del tablet e degli i-pod che non sanno più cosa sia un manoscritto e che scoprono l'e-book.
La mia è la generazione che cresce con seno rifatto, naso rifatto e, volendo, l'imene ricucito, la generazione dei reality come Lost, Survivor, Secret Story e dei giochi a premi tipo Chi vuol essere Milionario.
La mia è la generazione del ritorno all'ordine dopo i casini dei black block, la generazione che ha tentato di imitare il '68, la generazione che sogna ogni volta che arriva il mese di agosto, la generazione che non sa più dove sono le classi che dovrebbero presumibilmente lottare.
La mia è la generazione che parla il miscuglio di inglese e francese che si legge sui giornaletti per adolescenti tipo Cioè: la story del mese è che la mia tipa sul dancefloor dà il suo cell a un tizio easy che sembra open, la mia è la generazione che ha visto impiccare Saddam Hussein su Dailymotion, che vince concorsi per film realizzati col telefonino e fa musica con le onde alfa.
La mia è la generazione che non fa più figli, ma che non si mette più sistematicamente il guanto, eppure la mia è la generazione nata con l'aids, la generazione a cui si è raccomandato il sesso sicuro, la generazione che scopa col gommino e l'imene ricucito, la mia è la generazione che non si vergogna più a incontrarsi su Meetic, che non si vergogna più a sposarsi su Meetic, la generazione che vende filmini hot su www.sextapes.com sperando di vincere i 5000 dollari in palio, la generazione che si trascina in tribunale per recuperare i proventi dei video.
La mia è la generazione obbligata a essere ecologista per tutti quelli che non lo sono stati, la generazione a cui chiedono di tornare a cacare nella segatura e non fare più il bagno, la mia è la generazione che trova belle le pale eoliche e costruire case interrate, la generazione che non avrà più petrolio proprio ora che comincia a godersi i voli low cost.
La mia è la generazione di chi ha festeggiato i suoi sei anni durante il genocidio in Rwanda.
La mia è la generazione che ama acquistare tappetini per il mouse.
La mia è la generazione che ha visto tutte le capitali europee.
La mia è la generazione della fine dei record sportivi, a meno di non far ricorso alla crioconservazione.
La mia è la generazione che diventa più povera, la generazione che paga le pensioni, la generazione che impara ad aver paura dei vecchi. La mia è la generazione che ha perso il pubblico impiego, la generazione a cui sbandierano davanti il modello scandinavo, la generazione che si vergogna di fare errori in inglese perchè non è più una lingua straniera per nessuno, la mia è la generazione che passa a destra per disperazione davanti al panorama offerto dalla sinistra, la mia è la generazione a cui hanno smantellato lo stato sociale sotto il naso, la generazione lavorare di più per guadagnare di più, la generazione mal consigliata dai consulenti d'orientamento, la mia è la generazione degli hedge fund e dei trader spregiudicati alla Jèrome Kerviel, quella cazzo di generazione in cui è possibile perdere 5 miliardi passando da una porta e far finta di non aver visto nulla, "Mi scusi, ha per caso visto 5 miliardi? Devo averli persi uscendo...No? Sicuro?".
La mia è la generazione del processo di Outreau e della verità che non esce più dalla bocca dei bambini.
La mia è la generazione dei Beckham, dell'anoressia, dei paparazzi, delle star che escono senza mutande e non mettono la cintura di sicurezza ai loro figli, la generazione delle macchie di sperma sui vestiti delle stagiste che si rivolgono solennemente all'America.
La mia è la generazione delle first lady che pubblicano dischi, la mia è la generazione di Eurodisney.
La mia è la generazione delle leggi antifumo e antialcol, la generazione vodka e Red Bull.
La mia è la generazione dell'iPod, dell'iPhone, delle chiavette USB, del Wi-Fi, di MSN, la generazione che conta i suoi amici su Facebook, la generazione che si manda un poke.
La mia è la generazione che diventa sterile a furia di provare ad aver figli a quarant'anni.
La mia è la generazione che ha riscoperto il poker, la generazione che forse scoprirà tutte le proprietà intrinseche della materia oscura, la generazione a cui non fa più effetto l'idea di andare sulla Luna.
La mia è la generazione che non ha ancora deciso se Paris Hilton è una gran figa oppure no.
La mia è la generazione della crisi dei mutui subprime.
La mia è la generazione del riscaldamento globale e dei documentari strappalacrime sul destino degli orsi bianchi e delle calotte polari.
La mia è la generazione che non può farsi carico di tutte le miserie del mondo, però magari si potesse, e poi e poi la mia è la generazione che guida scooter, che ruba scooter, che può pagarsi un test del DNA per ritrovare lo scooter, la mia è la generazione dei 17 milioni di persone che leggono la stampa scandalistica in Italia, e soprattutto la mia è la generazione a cui non smettono di ripetere che vivrà peggio, che vivrà meno bene di, la mia è la generazione della disocuppazione, della bolla immobiliare, del campo profughi alle porte di Roma, di Showcase, della naturalizzazione monegasca, della fuga dei capitali, dello scudo fiscale, dell'abolizione delle 35 ore, degli incentivi per l'uso dei mezzi pubblici, del database Edvige e dell'interdizione delle telefonate sulla base del semplice sospetto di far parte di una banda organizzata, una generazione senza ordine, la generazione che ha perso Amy Winehouse scoprendo così Adele, ma a cui tutti ripetono che può vincere la battaglia del potere d'acquisto.
Brindo a Voi, a questa Vita, Baci, Amore e Gioia Infinita.

Jù.






TATTOOS OF MEMORIES

In fondo al campo da calcio dell'oratorio, c'era una pila di legni, tipo quelli che vedi galleggiare nei fiumi canadesi. Ve lo dico perchè io stavo seduta lì. Angelo fumava il gambo di un fiore e diceva che suo padre faceva il macellaio e che lui avrebbe fatto la stessa cosa. Io non sapevo ancora bene tra maestra, presidente degli Stati Uniti o calciatrice del Brasile, però in un certo senso mi stavo dando da fare. Non a scuola.
Con la penna.
Avevo visto la settimana prima Ritorno al futuro, ma visto che viaggiare nel tempo e incasinare la vita dei miei non era contemplata tra le professioni possibili, folgorata da una scena dove praticamente mi veniva suggerito "O impari a darti da fare o non avrai mai un ragazzo", decisi di provare a cimentarmi nel migliore mestiere a cui una quindicenne possa aspirare: " la figa".
Ecco che maltrattavo i miei fogli  "Non potrai vivere delle cose che scrivi, la vita è tutta un'altra storia", mi aveva detto mia madre. 
Con le sole due frasi ad effetto che conoscevo, davanti allo specchio leggevo le cose che scrivevo, credendo di essere una scrittrice bravissima e sentendomi finalmente libera. Idiota e felice alla sua facciazza. Perchè certe parole mi avevano ferito e mi ci buttai sotto, forse più per dimostrare qualcosa a lei che a me stessa.
Già due mesi dopo soltanto mamma mi chiese di scriverle una frase "delle mie" per degli auguri, ma le dissi di no. Che soddisfazione. 15-0 per il mio orgoglio con una rabbia della Madonna.
Sto lì con Angelo che non gliene frega niente se io sia Susanna Tamaro o no, gli bastano le cazzate che dico e quando non gli bastano più di solito non è che si lamenta, fa solo "Andiamo a farci una partita a calcetto" e io metto via la baracca.
Verso la settima volta che rileggo quello che ho scritto arriva Walsch.
Walsh era il miglior scrittore della terza D. Arriva col vestito d'ordinanza. Giubbotto elegante scolorito e i pantaloni di un nero-funerale.
"Sei tu che dici di saper scrivere?".
"Io non ho detto un bel niente".
"Beh...mi hanno detto che vuoi rubarmi il posto".
"No, guarda, io non so neanche da che parte si inizia a scrivere...".
"Esatto...E sia chiaro che quella roba lì, qui la faccio già io".
"Perchè, hai paura?"
E qui Walsch mi diede una stilettata. Non usò nessun coltellino a serramanico, tranquilli. Usò le parole, ma andò a fondo.
"No. DI UNA CON LA ERRE MOSCIA NON POTREI MAI AVER PAURA.
Si volta e se ne va.
Beccata. Abbassai la testa. Angelo non fumava più nessun gambo di fiore e stringeva forte i pugni, il collo gonfio, nel tentativo di dimostrarmi che era dalla mia parte, ma non sapeva bene da dove cominciare a difendermi. Certo, una frase da un amico, in quel momento, mi sarebbe tornata comoda, ma funziona sempre così.
E' nei telefilm che hai sempre la battuta pronta e le risate registrate.
Passai quell'estate a cercare di "guarire" quello che fino ad allora non mi era sembrato mai un difetto, ma che adesso pesava come una tonnellata sulla buona riuscita della mia missione.
Guarire...un'altra sonora stronzata. Che poi, quelli messi da parte, suscitano sempre simpatia. Ma gli adolescenti sono le creature più ciniche e spietate mai viste. Darwin lo omise.
Crescendo, rimpiangi di non essere più così diretta come quando avevi tredici anni. E allora, che cosa volevo per me?
Volevo una bici che andasse. Un amico che ti scegliesse anche quando non eri da scegliere. Una porta per uscire che restasse aperta, quando tirava vento.
O forse, molto più semplicemente, volevo essere leggera come una figa, non pesante come la zimbella della classe a cui fai ripetere:"Orrore un ramarro marrone!".
Comincia dall'inglese. Lì la erre non esiste. Il mio paradiso.
E poi, sapere qualche parola in più in una lingua che si cominciava a sentire dappertutto, poteva pure tornarmi utile.
Stava tutto nel modo in cui mettevi la lingua. "Pensa di avere una patata in bocca" mi aveva detto quel logopedista mancato di mio fratello.
Gli diedi retta, anche se mi veniva da vomitare, a pensarci.
Ma la erre sparì. ( Salvo tornare, a gentile richiesta, nelle notti contraddistinte da una minaccia etilica ).
Alle superiori mi misero in banco con Cavagnis, una tipa che pronunciava malissimo la erre, pure peggio di me al minimo storico. Di nome faceva Marcella, ma quando le chiedevano come si chiamava lei riusciva a dire solo...Marvella. Marvella, possibile? Povca tvoia che imbavazzo.
E infatti lei si sentiva imbarazzata per colpa di tutti quelli inetti che la prendevano per il culo dalle otto all'una.
Io non faccio l'eroina di mestiere, ma un buon dieci punti sul mio patentino di figa, credo che me li guadagnai astenendomi dal prenderla per il culo.
Lei credeva che lo facessi naturalmente perchè ero la sua compagna di banco e con lei avrei dovuto vivervi un anno intero, come un affittuario. Dovevo pur aver bisogno di lei qualche volta per una penna, un foglio, un numero, un fazzoletto.
Ma non era così. Io non la prendevo per il culo perchè riconoscevo la sua muta sofferenza.
Otretutto sembrava non riuscire o voler far qualcosa per cambiare. Così una mattina d'ottobre, che fuori pioveva e dentro c'era inglese, le dissi:
"Cavaaa? Non te la prendere. Tu di inglese sei avvantaggiata. Con la tua erre ci fotti tutti quanti".
E infatti leggeva Shakespeare che era una meraviglia, mentre gli altri continuavano a far rabbrividire la prof. con i loro "Worrrrrrrking", "rrrrred", e brrrrrrrrave pirrrrrrla che non sapete leggere una parola d'inglese.
Roberto invece aveva la mia età e non aveva mai smesso di balbettare. Ora. Avere davanti uno che tartaglia è una faccenda piuttosto seria. E' difficile riuscire ad assumere un comportamento quantomeno degno. Magari cerchi di finire la parola che lui ha cominciato a dirti la settimana scorsa ed è ancora lì che tenta. E può darsi la prenda a male. Se si tratta di un ragazzo, poi, tenti di metterlo ancora più a suo agio, sì. Ma in che modo?
Roberto era un dolce casinista come me dagli occhi verde che all'asilo mi pestava i piedi e io in cambio gli raccontavo storie mostruose che avvenivano nella cucina di casa mia e che le vendevo per vere.
Tipo che mia madre aveva cucinato mio fratello, io me l'ero mangiato e poi l'avevo vomitato perchè sapeva di filo spinato e lui s'era rimesso insieme, come succede al mercurio quando rompi un termometro.
Roberto faceva ridere tutti, poi tutto a un tratto si bloccava e tu speravi che ce la facesse. Facevi di sì con la testa, per infondergli coraggio. Però il più delle volte lui non riusciva a terminare quella maledetta parola che aveva celata nei canyon della sua mente, così abbassava lo sguardo, affranto.
Le stesse volte che gli avrei infilato volentieri la mia mano intera in bocca, per scavare oltre la sua lingua ed estrargliela a forza.
Successe una sera di gennaio che c'eravamo tutti. Erano appena cominciate le superiori e il gruppo delle medie si stava sciogliendo. Doveva essere una festa, ma stavamo un'altra volta litigando furiosamente.
Roberto stava zitto con il capo chino che pareva volesse controllarsi le suole delle scarpe d'in piedi, quando caccia un urlo e tutti si ammutoliscono. Fu come un singhiozzo.
"Vvvvvvv....vvvvvv....vvveeeeeer...ggggggg....gggooooo.....gnaaaaaaaaaaa!!".
Stavolta non c'era più nessuno ad annuire con la testa per incitarlo a proseguire. Eravamo tutti stretti alla gola da un mastodontico silenzio. Come struzzi insabbiati.
"Quando Dany sssi è rotto la gamba e lo abbiamo accompagnato tuttttttti all'ospedale? Eh? Ve lo rrrrrrrriccccccordate? Dove siamo finiti? Vi volevo così bene".
Noi sembravamo un mammut ritrovato congelato sotto quintali di ricordi. Lui smise semplicemente di parlare e uscì di corsa piangendo più forte.
Avrei voluto inseguirlo e dirgli che mi dispiaceva, che poteva dare tutta la colpa a me se stavamo litigando, se la promessa di restare amici indissolubili si era sgretolata appena sotto le nostre firme in calce. Ma restai immobile, come gli altri, come spaventata dai latrati di un cane che doveva averci fatto paura da bambini.
Volevo bene a Roberto. Quella sera, comunque erano andate le cose, ero davvero, oltremodo, fiera di lui.
Aveva sconfitto per un momento il suo problema sotto cinquanta paia d'occhi sterili che lo trapassavano, aspettando la parola successiva.
Avesse parlato chiunque altro sarebbe stato interrotto. Lui no. Era l'unico che avrebbe potuto farlo.
Mi dissi che gli avrei detto grazie e scusa di qualsiasi cosa l'avesse ferito, appena l'avessi rivisto. Due parole che non riuiscii più a dirgli, perchè andò a vivere via, dalla madre, prima che potessi riuscirci.
Così il 6 marzo 2006, qualcuno salì su un palco con una chitarra scordata e i capelli assurdi, diede le spalle al pubblico con una fifa blu, trovò appena il coraggio di voltarsi senza inciampare nel cavo, prendere con una mano il microfono e balbettare: "Questa è per Roberto. ".
"Roberto" lo dissi con la erre moscia.
:-)

CHRISTMAS LIGHTS

C'è chi, come me, nasce con la fissa dei maestri. E fin da piccola si mette di buzzo buono per trovare chi, con amore e pazienza, gli spieghi i tanti perchè che incontrerà lungo il cammino.
E non mi riferisco ai grandi maestri, filosofi, scrittori, poeti, mistici. No.
I maestri di cui parlo sono molto più terra terra, sono piccoli maestri. Persone comuni che, entrando nella tua vita ( anche con i loro problemi), la segnano per sempre. E ti aiutano a crescere.
Il mio primo maestro è stato il nonno Pino. Avevo 6 anni.
Di lui, ancora oggi, ricordo i modi fini e gentili, la faccia tonda, l'aspetto un pò imbolsito e i suoi quotidiani insegnamenti. Fatti di calma, tolleranza, assenza di pregiudizio, libertà. E da uomo libero qual era, mi sollecitava a rispettare sempre quella degli altri. Una meraviglia.
Poi è arrivato l'allenatore della squadra di calcio dove giocavo. Avevo 18 anni.
La mia stagione agonistica ( sono stata calciatrice per quasi 5 anni ) era ormai alle spalle. Avevo voglia di divertirmi, di essere sempre più libera, mi stavo innamorando, ma di quegli anni trascorsi su un campo da calcio ad allenarmi, tre, quattro ore a settimana, più la partita al sabato o alla domenica, mi restava la caparbietà, la disciplina, la forza di raggiungere gli obiettivi. E poi, mente e corpo si parlavano poco tra loro: Omar mi ha insegnato a farli dialogare. Grazie a lui ho imparato a non considerare più il corpo solo come una massa di muscoli da potenziare.
Ho compreso che la mente non era più solo un prezioso gregario per arrivare dritta alla meta. La straordinaria coppia viaggiava all'unisono. La mente imparava ad ascoltare il corpo. Il corpo a rispettare i tempi della mente. Chimasi, forse, equilibrio.
Poi è stata la volta di Lui con la sua terribile malattia. Avevo 20 anni.
All'epoca mi sembrava impossibile che gli fosse capitata questa disgrazia. Attonita, lo guardavo allontanarsi lungo una strada senza ritorno. La vita mi obbligava a una inaspettata battuta d'arresto. Il dolore mi annientava. Eppure lì, in quei giorni densi di paura, ho imparato a stare ferma. Ad aspettare. Ho capitato quanto fosse importante osservare, senza poter far nulla, l'evolversi degli eventi. Lì, in quei giorni, segnati spesso dall'urgenza, ho compreso l'importanza di accettare il proprio destino. Perchè la differenza tra un disastro e un'avventura, me l'ha insegnato la leucemia, è solo la tua attitudine.
I miei piccoli maestri, con i loro insegnamenti, mi seguono da vicino. E non è un caso che li pensi cosi intensamente ora, in questo mese di dicembre che, per tradizione, apre le porte alla dolce attesa del Natale.
Una festa che, a dispetto dei tempo che corrono, suscita in me la stessa emozione di quando ero bambina. La lista dei doni che mi piacerebbe ricevere sotto l'lbero è quasi pronta. Ma uno in particolare vorrei chiedere per la notte del 25: un altro piccolo maestro capace di spiegarmi, ancora una volta, i tanti perchè che incontrerò strada facendo. Un altro prezioso maestro da affiancare a quelli che l'hanno preceduto. Avendo ben presente che il più grande Maestro di tutti, accanto alle necessità vitali, è l'Amore. Perchè quest'anno a Natale non voglio niente. Non mi serve un telefono nuovo, non lo voglio un telefono nuovo. Non voglio Cose. Sempre CoseCoseCoseCose.
Quest'anno a Natale voglio solo gente che sorride.

Jù.

UNO PIU' UNO FA MILLE

Jussin aveva fatto di tutto per non nascere il giorno prima dell'inizio della primavera.
Pur di non venire al mondo venerdì 20 Marzo, aveva costretto sua madre a dieci ore di travaglio.
Quindi, come ripeteva spesso nonno Gabriele, aveva avvertito fin dall'inizio.
Non doveva aver avuto lo stesso effetto del mostricciatolo di Alien che usciva dalla pancia di Ellen Ripley, ma qualche inquietudine doveva pure averla sfiorata...invece no.
Mamma Mary si era fatta fregare dal suo aspetto. Una marmocchia pronta per il presepio: pelle candidissima, capelli biondo stile Marylin, sorriso Plasmon. Certo, mancava il colpo di grazia, due enormi occhi d'un azzurro-mare dei Caraibi che sarebbero stati perfetti per farla essere una modella per i pittori, o meglio, i madonnari.
Adesso Jussin si ricorda di quello sciame di "amoooooooooooooooooooooore" che sottolineava in coro ogni suo passaggio tra la gente, quando c'erano donne nei pressi, i commenti su quella bellezza da pseudo cherubina dell'iconografia classica che facevano comunque morire d'invidia le mamme ( vere ) delle altre bambine. O quell'immancabile "pucci pucci" con cui cercavano di staccarle il mento.
Ma nulla in confronto agli ammiratori uomini ( quasi tutti amici del nonno ), che non potevano farle il "pucci pucci" perchè roba da femmine e che quindi ripiegavano verso un virile gesto che l'avrebbe avviata fin da subito alla consona rudezza del maschio, ovvero stringerle il naso con il pollice ed indice, agitandole quel sottile spunto di cartilagine fino a quando non si rendevano conto che stesse smettendo di respirare.
Il naso di Jussin diventava così rosso che Moira Orfei l'avrebbe presa subito nel suo circo senza neanche farla passare per il trucco.
A quel punto, sempre la solita scena: Jussin che scoppiava a piangere a fontanella e tutti gli amici del nonno a sorridere soddisfatti.
Jussin si era sempre chiesta perchè suo nonno dicesse sempre quel "noooooooooooooooooooooooooo", dato che era lei la vittima, non di certo quegli omoni grandi e grossi.
Jussin allora pensava che gli uomini adulti, in gran parte, fossero davvero goffi, soprattutto quando si sforzavano di avere atteggiamenti materni davanti agli sdilinquimenti delle donne con i nenonati.
" E' che forse si sentono messi in competizione dalle donne stesse", pensa ora Jussin "dopotutto come fanno a sottrarsi al confronto di un neonato quando una signora gli pianta addosso uno sguardo di sfida, come volesse dire "e tu, non lo coccoli il mio bambino? Tu, uomo, manco mi dici che è bellissimo? Non fai neanche trenta secondi di cerimonie, fossero anche finte come gli auguri di parenti lontani per Natale?"
Nella sua mente Jussin li rivede tutti, gli aguzzini del suo naso e come i cacciatori di criminali di guerra, le sta venendo voglia di stanarli, ritrovarli, metterli spalle al muro, fissargli negli occhi mentre i suoi si iniettano del sangue della vendetta, quindi compiere giusitizia cieca, afferrare il loro di naso e spremerlo con tutta la forza che si ritrova oggi, come si fa con l'ultima metà di lime che serve per condire un mojito fuori programma.
Adesso la mamma di Jussin, se sapesse a cosa sta pensando, le direbbe "Ma sei scema?.." ma lei non sa cosa vorrebbe dirle Jussin se soltanto potesse parlare...
Proprio oggi, mentre usciva di casa, ha visto una bambina che giocava con una bambola in un passeggino e le ha sorriso complice, le si è avvicinata e si è limitata a prenderle la manina carezzandogliela dolcemente con il pollice perchè, ha pensato tra sè e sè che quando crescerà capirà quanto sia raro che qualcuno voglia davvero dartela, una mano...così, quando sarà adulta, se dovesse riincontrarla, non vorrà staccarle il naso, ma restituirle quella stretta di mano, che da grandi vale ancora di più.

Jù.

QUANDO I BAMBINI FANNO OOOH

Mia madre dice: "Sai che è faticoso star dietro a Giacomo?" Ha ragione.
Però poi penso che sia bellissimo mettersi al suo livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. E non è questo che più stanca, secondo me. E' piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi fino all'altezza dei suoi sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi per non ferirlo.
Diciamocelo, l'altezza dei sentimenti non dipende dall'età.
Eppure, non mi aspettavo di incontrare così presto in mio nipote, 5 anni, certi batticuori, iniziati più di un anno fa.
Eravamo a tavola tutti insieme, io, lui e i nonni, quando, prima dello scorso Natale, mi ha confessato di aver preso una decisione importante: "Sposerò Michela. Anche Oscar la vuole sposare, ma io la sposerò."
Michela, sua compagna di scuola materna, non è stata una conquista facile.
Non so se sono serviti i miei consigli ( "devi essere gentile, dirle delle parole dolci..." e lui "ma lo so, io le dico cacca e lei ride") o è stata premiata la mia costanza, comunque sia, una sera di qualche tempo fa, sono stata travolta dal suo abbraccio e dalla sua felicità: "Zia, zia, Michela mi vuole sposare, me l'ha detto oggi." Ma non è una relazione semplice.
I primi disaccordi sono venuti fuori sulla scelta del nome del figlio che hanno già deciso di avere.
"Michela vuole chiamarlo Gesù, io no, non è un nome da bambino: i bambini mica camminano sull'acqua." E poi sulla scelta della casa:"Lei non vuole vivere a Gandino, vuole andare a vivere a Milano, io no, non capisco il milanese." Per fortuna hanno raggiunto un accordo: andranno a vivere al Castello di Ranzanico ( del resto lui è un cavaliere e lei una principessa!). Peccato che ci siano state tensioni anche sul colore delle stanze ( "Michela vuole il castello tutto d'oro, ma come faccio poi a trovare la mia armatura che è d'oro?"). Si sono persino presi una pausa di riflessione, quando, questa estate, lei è stata una settimana al mare e Giacomo, solo soletto, qui a Bergamo, aveva messo gli occhi su un'altra bambina.
Ma a settembre la nuova fiamma era già stata dimenticata. Sempre e solo Michela, in ogni discorso spunta il suo nome, in ogni momento lui ha un pensiero per lei. Vi giuro che ho sofferto il giorno in cui, arrivando a casa, l'ho trovato tristissimo: "Sai che la Cristina ( la maestra ) mi ha regalato un fazzoletto magico per mandare via le lacrime? Ho pianto tanto perchè Michela ha detto che non mi vuole più sposare." Sono rimasta senza parole. Le ha trovate mio padre, nonchè suo nonno:"Ma dai, devi dirle che ne avrai quante ne vuoi di fidanzate." E il mio White Rabbit, dall'alto della sua saggezza spiazzante: "Non glielo dico perchè poi piange e io non voglio far piangere la mia sposa." Ora i due si sono finalmente riappacificati ( una sera in bagno, a mio padre: "Nonno, mi vuole di nuovo sposare!")
Questa storia d'amore mi commuove. E' un' emozione  pensare alla forza dei sentimenti, scorgerla in un bambino così piccolo e saperlo capace di tirar fuori quello che prova, senza vergogna.
Chissà cosa conserverà di tutto questo quando sarà grande, chissà che uomo diventerà. Me lo chiedo ogni giorno.
E ogni giorno mi impegno ad insegnargli che dei sentimenti non dobbiamo mai avere paura.

Jù.