20 MOTIVI DI FELICITA'

Essere emotivi significa, sostanzialmente, essere presi per il culo da tutti. E' un tratto della personalità che a volte può essere controllato ma che spesso straripa abbattendo gli argini della nostra razionalità per mostrarci nudi e indifesi verso il mondo. Non vuol dire essere delle mammolette - o forse sì - ma spesso questa caratteristica è interpretata come segno di debolezza. Credo che questo non sia nè il momento nè il luogo adatto per analizzare in maniera approfondita il fenomeno, anche perchè non ne sono in grado, però è decisamente il luogo per capire quali sono i disagi che le persone emotive sono costrette a subire per "necessità divina" e che solo le persone a loro volta emotive, possono comprendere.

 
#1 Hai una spiccata attenzione per i dettagli
#2 Quando guardi un film commovente cerchi di ricacciare dentro le lacrime aprendo al massimo le palpebre per non farti canzonare da chi è accanto a te
#3 Le critiche o ti abbattono o ti fanno venir voglia di sganciare testate nucleari
#4 Sai esattamente cosa provano le persone che ti stanno accanto senza doverglielo chiedere
#5 Ti innamori dalle quattordici alle sedici volte al giorno
#6 Riesci a commuoverti persino con le canzoni di Pitbull
#7 Quando litighi ti viene da piangere
#8 Puoi tentare di dissimulare l'imbarazzo quanto vuoi ma diventi comunque rosso come un peperone
#9 Vorresti donare un pò della tua empatia in beneficenza ma non puoi
#10 Se guardi un'edizione del TG5 stai male un mese
#11 Quando guardi un documentario dove un pesce gatto divora le uova di un pesce ciclide non riesci a fare a meno di piangere di fronte agli occhi della mamma pesce
#12 Prendere una minima decisione significa dover valutare attentamente tutti gli scenari possibili
#13 I film horror ti terrorizzano
#14 Perfino i trailer dei film horror alla radio ti terrorizzano
#15 Quando un tuo amico ti racconta di una disgrazia che gli è capitata stai peggio di lui
#16 I tuoi amici ti dicono che sei troppo sensibile almeno tre volte al giorno
#17 In inverno sei triste perchè c'è buio
#18 In primavera sei triste per il cambio di stagione
#19 In estate sei triste perchè fa caldo
#20  In autunno sei triste perchè l'estate è finita...e anche per le foglie che cadono


Jù. 





DEDICATO

Eccomi a parlare di coming out. L'abbiamo sentito decine di volte, in televisione, al bar, nelle notizie e nelle bacheche altrui sui social network, comprese le cucine, i salotti dei nostri parenti, i ristoranti.
Non è un caso: io credo che il coming out, in senso lato, sia il grande tema di questo tempo. Credo che essere se stessi, profondamente, il non nascondersi, avere il coraggio di essere se stessi, dei propri sogni, dei propri dubbi e difetti, dei propri amori, in una parola non avere paura di quel che si desidera, che ci piace, che ci completa, ci appassiona e ci fa stare bene, di quel che amiamo, di chi amiamo davvero soprattutto, sia il grande tema delle nostre vite private. Di più: sospetto che nascondersi, far vincere la paura, camuffare i propri desideri, possa portare ad ammalarci, prima o poi, nel corpo e soprattutto nell'anima. Lo scrivo consapevole di quello che tante persone intelligenti potrebbero chiedersi ( me compresa, anche se meno intelligente di loro): la vita è ricerca della felicità? E se uno è uno stronzo? (metaforicamente e no ). Deve essere tale o cercare di migliorarsi? Eccetera.
Non divaghiamo. Non parlo a caso di essere o non essere stronzi o essere o non essere felici, che la felicità è una cosa molto complessa, fatta di istanti, lavoro su se stessi e grande onestà nel riconoscere i propri limiti ma anche i propri desideri.
Voglio parlare invece del coming out di Ian Thorpe: un campione ma anche un divo, una celebrità da copertina. Per gli australiani, ha scritto Roberto Perrone sul Corriere della Sera, Thorpe - nuotatore che ha vinto cinque medaglie d'oro in due Olimpiadi, tre d'argento e una di bronzo, undici titoli mondiali e ventidue primati del mondo - è una specie di Garibaldi, un simbolo non solo sportivo, una faccia da milioni di dollari. Un ragazzo prodigio che ha avuto un percorso sportivo e mediatico eccezionale segnato da glorie e da cadute, incidenti, malattie, sconfitte. Ha fatto di tutto, dalle pubblicità alla televisione, dove ha avuto grande successo in uno show con McEnroe sulla Bbc. Poi, è caduto nella depressione e nell'alcolismo. E' finito due volte in ospedale, insomma, la parabola di tante star.
Da tempo si diceva fosse gay e di sicuro ne era un'icona, con tanto di copertina su Playboy. Lui negava. Ha inscenato un finto matrimonio e nella sua autobiografia, due anni fa, ha scritto chiaro e tondo: "Sono attratto dalle donne e spero un giorno di metter su famiglia".

Fino a un mese fa. In un'intervista a Michael Parkinson su Channel Ten finalmente lo ha detto: "Sì, sono gay". La tentazione di farne un esperimento da laboratorio, di vedere se ora, dopo il coming out, Ian diventerà una persona più felice e risolta, se smetterà di bere e farsi del male, è davvero grande.


Io so per esperienza personale che aiuta molto. Poi, la vita è fatta di tante cose: anche di doveri, circostanze e cose che dobbiamo fare per gli altri. E poi c'è il caso, nelle nostre vite, che ha molta più importanza di quanto pensiamo. Qualcuno lo chiama destino. Lo fanno i meno intelligenti tra noi: compresa me.

Jù. 


QUANTI NE VEDETE IN GIRO COME MARLON?

Care lettrici, cari lettori, vi invito ad un esperimento.
Cercate su Google la famosa immagine di Marlon Brando sul set de Il Selvaggio in sella a una moto Guzzi: un Marlon Brando ventinovenne nei panni del capobanda Johnny nel film del 1953 diretto da Laszlo Benedek. Riflettete sul fatto che quel film fece istantaneamente raddoppiare in America le vendite di jeans e giacche di pelle, e addirittura le condannò al bando - in quanto simbolo inaccettabile di una cultura giovanile ribelle alle regole e alle convenzioni- nelle regioni più tradizionali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. E rispondete: conoscete, oggi, una persona capace di un simile impatto?
Esiste, in inglese, un'espressione per descrivere quelli ( i pochi ) come Brando. Larger than life.  Cioè un personaggio così leggendario da apparire più ingombrante della persona stessa. E dire che, anche in persona, Marlon era imponente. Quando ad appena 23 anni sbarcò a Broadway, nel 1947, nel ruolo del bruto Stanley Kowalski di Un tram che si chiama Desiderio, la sua era una presenza fisica di attore così radicalmente diversa dalla norma - bicipiti da scaricatore di porto, torace da body builder, volto angelico - che fornì il perfetto sex symbol alla nuova America uscita dalla guerra con una profonda voglia di cambiamento. Ancora oggi, guardare l'adattamento cinematografico dell'opera di Tennessee Williams, diretta da Elia Kazan nel 1951, colpisce, forse ancora più che per lo straordinario talento di Brando, per la sua modernità. Nella recitazione, nel portamento, persino nell'aspetto, sembra calato nel film dal futuro. Prima di James Dean, prima di Elvis Presley, è lui il prototipo della nuova mascolinità.
Leggendario in tutto. Per esempio, nella capacità quasi sovrumana di risollevarsi, dopo un decennio di flop e un'apparente condanna all'oblio, in un solo anno, il 1972, con due titoli che passeranno alla storia. Il padrino di Francis Ford Coppola, definito da Stanley Kubrick "probabilmente il più bel film che io abbia mai visto". "Il più liberatorio" e "il più potentemente erotico" furono invece i superlativi che Pauline Kael, leggendaria critica del New Yorker, usò per Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, la storia di due solitudini che si incontrano in un'avventura di sesso e disperazione. Che, a causa di certe scene certo ai confini dello shock, una vergognosa sentenza della magistratura italiana condannò al rogo. Solo poche copie si salvarono, e solo nel 1987 il film potè uscire in sala. Per cinque anni, il regista fu privato dei diritti civili ( in pratica, non gli fu concesso di votare ) per "offesa al comune senso del pudore".
Leggendario nell'ignorare questa e altre reazioni scandalizzate: come quando, proprio per Il padrino, vinse il secondo Oscar e mandò a ritirarlo una nativa americana, per protesta contro il "genocidio culturale" messo in atto da Hollywood contro quel popolo.
Penosamente leggendario nel privato. Incapace di far stare la sua grandezza, e anche la sua megalomania, dentro i confini di un'esistenza "normale". Condannato a condannare all'infelicità le sue donne, i suoi figli soprattutto. A sopravvivere a troppe tragedie, e a morire solo, esattamente dieci anni fa.
Marlon Brando ha sempre avuto più nemici che amici. Non a caso, la più memorabile intervista che abbia mai concesso è una di rara perfidia.  Era il 1957, stava girando Sayonara in Giappone e Truman Capote, il più grande scrittore della loro generazione, andò a fargli visita per conto del New Yorker.
Ma, tra una sbruffonata e l'altra, esce fuori un Brando fascinosamente immaturo, a tratti dolorosamente sincero, reduce da un successo precocemente stellare, in bilico sull'abisso di un futuro che non può immaginare. Un ritratto che, con gli occhi di oggi, vale ancora di più.
A un certo punto di questa intervista Marlon Brando disse una cosa bellissima " ...la recitazione è una cosa talmente impalpabile. Una cosa fragile e timida che un regista sensibile può aiutarti a tirare fuori. Su un set cinematografico, questo momento cruciale arriva verso il terzo ciak, se hai un regista capace di evocarlo. Gadge ( il soprannome di Elia Kazan, ndr ) in questo è bravissimo. Con gli attori è meraviglioso."
Proprio un film diretto da Kazan, Fronte del porto, secondo me contiene una delle più memorabili scene di Marlon Brando: il tragitto in auto durante il quale Rod Steiger, nei panni del suo fratello venduto alla malavita, confessa che lo sta portando verso un'imboscata mortale. Da quando vidi per la prima volta il film, mi sono sempre chiesta se questo fosse l'esempio cruciale di cui parlava. 
Benchè nato nel Nebraska, dove suo padre faceva il commerciante di mangimi, Brando - terzogenito e unico maschio - traslocò presto a Libertyville, Illinois, dove la famiglia si installò in una grande eccentrica casa. Mungere la mucca era il compito quotidiano di Bud, come veniva allora soprannominato Marlon. Bud era, a quanto pare, un ragazzino estroverso e competitivo. Ribelle, anche: non c'era domestica che non fuggisse di casa. Ma, come le sorelle, era attaccatissimo alla madre. 
La signora Brando recitava da protagonista nelle piccole compagnie teatrali del posto, e da sempre sognava le luci della ribalta. Suo figlio, che aveva dissuaso da certe iniziali ambizioni impiegatizie, e che nel 1942 era stato scartato dall'esercito per via di un ginoccho infortunato, fece le valigie e partì per New York. Addio a Bud l'adolescente grassottello e infelice dalla zazzera bionda: è il momento di Marlon, l'uomo fatto, il talento.
Ma Brando non ha mai dimenticato Bud e, quando parlava del ragazzo che era stato, sembrava ancora abitato dal suo spirito. 
Credo che la cosa più bella di lui, l'abbia detta Sean Penn:
"Raccontare Brando con le parole è come pretendere di spiegare l'architettura danzando".
 Leggete l'intervista di Truman Capote. Non resterete delusi: è una promessa.

Jù.