#LAURAANTONELLI

Le scene più magiche di Amarcord, girato nel 1973 da Federico Fellini, sono quelle della nebbia.
La nebbia dell'inverno riminese, la nebbia sul mare al passaggio del transatlantico Rex, la vaga foschia quando i protagonisti ballano davanti a un Grand Hotel deserto. E le pianure brumose fotografate da Luigi Ghirri sono nella loro indeterminatezza, di una nitidezza meravigliosa.
Qualche mese fa, leggendo un libro sul grande maestro Henri Cartier-Bresson mi rendevo conto di quanto il fascino delle sue immagini fosse tutto nel movimento, nell'effetto sfocato di persone che entrano nell'immagine, che stanno camminando, o che stanno uscendo dall'inquadratura. Cartier-Bresson aveva detto una volta, con grande intelligenza che "la nitidezza è un concetto borghese".
Se aveva ragione lui, allora siamo in un'epoca decisamente borghese, perchè la nitidezza è diventata una condizione irrinunciabile del nostro modo di vedere e di pensare il mondo. Oggi la tecnologia 4K è ormai molto diffusa e alla portata di tutti. Da pochi mesi alcuni schermi di computer montano una nuova tecnologia 5K e l'8K, che renderà i nostri televisori ultradefiniti, è un traguardo non più così lontano. I nostri occhi si stanno abituando a una nitidezza impressionante, dove tutto è così reale, così intenso, così dettagliato da apparire come fosse vero, fino a provare a toccare le immagini per vedere se esistono.
Ma la nitidezza è un'invenzione culturale, non è un traguardo tecnologico. Non solo i sogni più intensi non sono nitidi, e non lo sono i film più poetici, e non lo sono i fotografi geniali. Ma la nitidezza viene scambiata il più delle volte come realtà, e il dettaglio come verità.
C'è un vecchio detto che dice: " da vicino nessuno è normale". Significa che se tu ti avvicini molto a qualcosa, scopri i suoi difetti, le sue ferite, le sue imprecisioni, tutto quello che ingrandisci troppo ti può apparire persino mostruoso. I pittori di un tempo per giudicare un quadro, che fosse il loro o di chiunque altro, si mettevano a debita distanza. La seduzione è fatta di luci soffuse e di immagini non troppo nitide, e i nostri ricordi più belli sono lontani dalla iperrealtà di questo mondo moderno.
Perchè allora inseguire il più possibile una nitidezza ossessiva nel restituire le immagini del mondo, che siano fotografie, video, o film? Perchè si scambia la nitidezza per l'esattezza. Si pensa che un'immagine è esatta quante più informazioni contiene. Per cui saper distinguere tutti i pori della pelle di un attore è un modo paragonabile al vederlo dal vero, riprodurre un muro scrostato fino al dettaglio più infinitesimale significa renderlo più esatto.
Ma l'esattezza non è esattamente questo. Giacomo Leopardi nei primi passi dello Zibaldone fa l'elogio della vaghezza. O meglio dell'indefinito, che sarebbe il contrario dell'esattezza. E Italo Calvino, nella sua terza lezione americana, dedicata proprio all'esattezza, fa notare che Leopardi da un lato elogia il vago, dall'altro è assai preciso nel descrivere le cose. Come se ci fosse una contraddizione in questo. Solo che stiamo parlando di letteratura, non di immagini. E la letteratura non resituisce la visione della realtà, ma alla realtà si sovrappone utilizzando le parole. Mentre le immagini hanno un continuo bisogno dell'indefinito, della vaghezza, del sogno, e di tutta una serie di suggestioni sfuggenti. Perchè siamo noi a completarle, e siamo noi a trovare negli spazi indefiniti emozioni e verità.
Le immagini spettacolari dei futuri schermi dei nostri computer, dei nostri tablet e dei nostri televisori non ci aiuteranno a capire che nitidezza e verità non vanno d'accordo. Che descrivere tutto quello che si vede, senza lasciare vuoti e immaginazione, è noioso; e che riuscire a distinguere anche l'ultima crepa di una statua non è un modo per apprezzarla al meglio, e che Cartier-Bresson, Ghirri e Fellini avevano ragione. La nitidezza è un concetto borghese. Uno status quo, un'immaginazione spenta, un sogno fastidioso. Eppure tutti inseguono questa falsa realtà che ci stupisce, ci rimbambisce, e toglie verità alle nostre vite.


   CANZONE CONSIGLIATA: Hide and Seek, Imogen Heap + Laura, Simone Cristicchi.
Cara Laura, forse è vero: è tutta colpa dell'amore che riavvolgerà il destino. Riscrivendoci il copione. 
Ma in ogni fotogramma resti sempre la più bella, lo diceva anche nonno. 
Mentre scorrono veloci i titoli di coda vorrei dirti che non è ancora troppo tardi per riavere la tua vita. 
Ora che sei libera e cammini lontano da qui e da noi, se puoi, salutami il mio nonno.

#CATFISH

Quando senti tutto ma non capisci niente, avresti una voglia pazza di vivere ma la paura è di più e allora pur di non prenderla in faccia, la vita, ti metti sdraiata, quando, in una parola, sei adolescente, ci vuole qualcuno che garantisca che passerà. Passerà l'adolescenza, certo: ma soprattutto passerà la paura.
"Come posso spingere mio figlio a leggere?". E' la domanda che più spesso mi viene rivolta, da genitori, amici e parenti. Ma in realtà (si) chiedono: come possiamo spingerli a vivere?
Ci vuole qualcuno, appunto.
L'ho realizzato al funerale della mia professoressa di italiano delle scuole medie che, dopo aver vissuto rumorosamente per 37 anni, silenziosamente, una mattina di tanti anni fa, se ne è andata.
Era una supplente e faceva anche l'educatrice, ma non ho mai messo bene a fuoco che lavoro facesse. Si occupava di relazioni, ecco: però nel senso più profondo dell'espressione. Aveva delle sopracciglia esagerate, urlava anche quando ascoltava, si comportava come le veniva, attenta esclusivamente a non fare del male a nessuno. Era questa l'unica regola. Per il resto niente regole: non esistevano i divieti in classe, in gita, non esistevano orari, non esisteva il come vestirsi, non esisteva il come comportarsi. Esisteva solo esistere.
Naturalmente non si era mai sposata e non aveva figli. Eppure quel giorno eravamo in tantissimi a sentirci orfani: perchè ogni giorno lei portava con sè in classe la storia di qualcuno. Se erano ragazzi disturbati, tanto meglio: lei ce l'avrebbe fatta. Li avrebbe salvati da loro stessi. Li avrebbe convinti che tanto valeva vivere, anzichè spendere tutte quelle energie per evitare di farlo.
Era l'estate del 2003 quando decisi di andare a trovarla nella sua "tribù", come lei chiamava simpaticamente la casa-famiglia dove lavorava. Avevo 16 anni, mangiavo poco e mi nascondevo in orrendi camicioni indiani di tre taglie più grandi. Fu una terapia d'urto, quella di Cristina: una mattina, al risveglio, tutti i camicioni erano finiti nell'immondizia. Terrorizzata dal mostrare il mio corpo perfino allo specchio, fui costretta a girare per la casa-famiglia in bikini. Da lì comincio, inesorabile, la mia guarigione. Basta così poco, allora? Vi chiederete, genitori, professori e sconosciuti che inciampiate in questo blog. Basta buttarle i camicioni indiani, basta buttargli l'iPhone, basta buttargli le cartine, basta scaraventargli il letto dalla finestra? Certo che no. Per eliminare l'arma con cui un adolescente crede di difendersi e invece si fa del male, bisogna regalargli una lusinga ancora più potente: l'accoglienza coraggiosa e piena della sua identità.
Cristina, con i suoi figli-non-figli, soprattutto si divertiva. Non era allarmata dalle loro stranezze: era curiosa.
Le interessava che noi alunni pensassimo con la nostra testa, ci emozionassimo con il nostro cuore e non prendessimo in prestito da altri le nostre idee. Più quelle idee erano originali, più alle orecchie degli adulti che ci circondavano sarebbero suonate come enormi cazzate, più lei le tifava. E senza dircelo, ci diceva di puntare tutto lì.
Non credo che sarei mai diventata una scrittrice, se in quel lontano anno e in quella lontana estate Cristina, vagabondando per le scuole di tutta la Lombardia con i suoi occhiali rossi e la sua pancia prepotente, non mi avesse dimostrato che nessuno è giusto, nessuno è sbagliato. Ognuno è semplicemente fatto com'è fatto.
Genitori e professori: se farete come lei, che genitore non era e professoressa lo era quasi per caso, ci riuscirete. Non farete alzare i vostri sdraiati, farete molto di più. Li aiuterete a trovare una posizione, per stare nel mondo anzichè subirlo, loro e solo loro. Dunque perfetta.


   CANZONI CONSIGLIATE: Songbird, Oasis + Vivere la vita, Alessandro Mannarino. 
La musica e i libri non servono a farci vivere altre vite, ma a farci riconoscere le nostre, quelle che abbiamo dentro. 

#WMA15

Capita di non dormire, la notte.
A me è successo di recente perchè mi trovavo in albergo, la stanza sopra un locale alla moda con gente in strada, bicchiere di birra in mano, a parlare di chissà cosa.
Allora mi sono vestita e sono scesa ad ascoltare meglio quello che mi giungeva come un brusio indistinto e fastidioso, tra i rumori dei motorini e i clacson delle auto. Mi sono improvvisata antropologa del "popolo della notte".
Immersa in una massa di giovani con la caratteristica dei giovani di oggi: quella di avere un'età estremamente elastica (come elastico è il mondo che ci circonda) tra i venti e i cinquant'anni. La prima frase che ho sentito, detta da un elegante quarantenne ad un'amica, è stata "Alla fine mi ha tolto l'amicizia su Facebook". La conversazione continuava su questioni personali che non c'è motivo di riportare qui, e che io stessa stento a ricordare. Ma è stata l'inizio di una strana esperienza. Tutti i dialoghi che intercettavo avevano a che fare con Facebook. O perlomeno, Facebook in qualche modo faceva capolino nei discorsi.
Quando Mark Zuckerberg, solo una decina di anni fa, divenne famosissimo e ricchissimo per lo straordinario impatto sociale del suo nuovo social, nessuno e nemmeno lui stesso nascose quanto il "Libro delle facce" (traduciamolo così) si proponesse innanzitutto come strategia telematica per "rimorchiare". "
"Rimorchiare", significa poi, nello sviluppo dei fatti, un sacco di cose: intessere relazioni, vederle trasformare e morire. Ma oltre al rimorchio c'è un'altra funzione, parimenti importante, che è quella di registrare la nostra rete di relazioni, il suo andamento. A un paio di lustri dal suo esordio, Facebook è diventato modalità soverchiante del nostro, avrebbe detto un noto filosofo dello scorso secolo, "essere nel mondo".
Tornando alla notte da cui ero partita, rievocando me sola in mezzo a una massa di persone parcheggiate in mezzo alla strada, mi sono sentita improvvisamente sola. Più sola del solito. Più sola di una persona che sta semplicemente da sola, in una sorta di solitudine collettiva, da "decentramento antropologico".
Tutti in strada, a fare le ore piccole per parlare di quello che succede "là". Un "là indefinito" e onnipervasivo, dove ci si incontra con estrema facilità e con estrema facilità ci si abbandona. In una specie di mondo rovesciato, ho avuto l'impressione di essere, assieme a tutti, fuori luogo, a commentare quello che avviene nel "mondo reale odierno", che è piuttosto nei computer, nei tablet e nel telefonini di (quasi) tutti. Un senso di spaesamento...Viviamo dunque in un mondo in cui siamo perennemente connessi (e ne viviamo la prepotente invasività ogni volta che un social, per manutenzione o chissà cosa, "salta" per qualche ora, creando piccoli panici mondiali).
Ma mi sono chiesta quanto poi, nel frattempo, siamo effettivamente inter-connessi. La differenza, grammaticalmente, sta in un prefisso. Nei fatti, in una delle grandi sfide del nostro tempo: cosa succede se ci incontriamo nel mondo reale più che altro per commentare quello che facciamo in quello virtuale?


   CANZONI CONSIGLIATE: Canzone delle osterie di Fuori Porta, Francesco Guccini + Un guanto, Francesco De Gregori. 
La Storia della poesia italiana che si fa canzone.