NOI, LA VITA E L'OSCURO

Se c'è una cosa che non posso fare -io amante ( o forse vittima ) del chiaroscuro ispiratore di questo blog - è osservare una situazione dal punto di vista di chi è-incredibile-ti-rendi-conto. Per sottintendere a me mai: non potrebbe capitare mai.
A volte, certo, la tentazione di farlo è fortissima. E, nel caso di vicende come quella di Motta Visconti, quasi irresistibile. 
Perchè, naturalmente: è incredibile. Prima di ucciderla aveva fatto l'amore con lei.
Perchè: ti rendi conto? Ha ucciso i figli e poi se n'è andato a vedere la partita.
Eppure: a chi non potrebbe capitare mai? A chi non capita?
Di lottare contro la tremenda sensazione di aver fallito tutto, intendo. Di flirtare con la folle possibilità di cancellare con un colpo di spugna quello che fino a questo momento è stato, per accogliere, finalmente, quello che sarà.
Pare fosse ossessionato da una collega che non lo ricambiava, Carlo Lissi. E che abbia sacrificato la moglie Cristina e i bambini perchè, fra gli ostacoli alla relazione che tanto desiderava, almeno non ci fosse il fatto che lui era già innamorato.
Ho regalato per un pò di giorni l'abbraccio del mio silenzio alla famiglia di Cristina. E poi ho pensato.
A quei complicati e delicatissimi telai che sono le nostre esistenze. Ai loro fili più spessi, quelli invisibili. A come giorno dopo giorno, anno dopo anno, quei fili s'infittiscano, s'intreccino fra loro.
Fortunato chi può sempre dirsi padrone del suo telaio.
Umano chi, a un certo punto, può perdere di vista il senso del disegno.
E se non fosse quello che faccio, il lavoro giusto per me? Se fossi stato spinto da quello che mi diceva mio padre o da quello che non sapeva dirmi mia madre, se insomma avessi fatto casino e confuso me stesso con qualcun'altro? Se quelle che chiamo le mie scelte fossero in realtà un destino che potevo cambiare e invece ho assecondato? Se quello che chiamo destino fossero in realtà le mie scelte, che ho sbagliato?
E soprattutto:se? Se le persone che rendono la mia vita degna di essere vissuta fossero in realtà i miei più pericolosi nemici? Se fossero proprio loro a impedire alla mia vita non solo di essere degna, non solo di essere vissuta, ma di essere il capolavoro che potrebbe essere e invece non è?
Purtroppo e per fortuna è vero tutto: non è vero niente. Le scelte sono il nostro destino, il destino è nelle nostre scelte. Le persone fondamentali della nostra vita la rendono sì degna di essere vissuta, ma nello stesso tempo sono i nostri più pericolosi e potenziali nemici, gli unici in grado davvero di ferirci o di compromettere i nostri piani e soprattutto i primi a diventare un peso insostenibile, se stiamo male.
Ma distruggendo loro, va da sè che distruggiamo noi stessi.
Fatico a scrivere queste parole, perchè l'ho fatto anche io: almeno tre volte, e l'ultima la sto pagando cara. Non ne potevo più di me stessa e ad un certo punto della mia vita ho cambiato un pò di cose, per poi tornare, dopo un pò, da dove ero partita. Non ne potevo più di nascondere la mia omosessualità e a ventisei anni ho cambiato città e casa, per poi tornare, qualche sera, nella mia. Non ne potevo più di me stessa e ho allontanato una persona. Che adesso mi manca, tanto e sempre.
Se allora, come credo, da tutto possiamo imparare qualcosa, che quest'assurdo delitto ci insegni questo.
Quando non ne possiamo più di noi stessi, quando perdiamo il senso del disegno, non buttiamo dalla finestra il telaio. Possiamo cambiare quello che non ci convince, certo, ma con la stessa cura e la stessa pazienza con cui l'abbiamo tessuto.
Quindi sforziamoci,  osserviamo i fili, quelli spessi e quelli invisibili. Anche se non vedremo solo cose che ci convincono, proprio perchè non vedremo solo cose che ci convincono, quelle cose ci appartengono.
Quelle cose siamo noi. Forti delle nostre scelte, come tutti.
Come tutti, per quelle scelte, fragili.

Jù.

LA BALLATA DELLE OSSA

Il fatto che avessi un fratello molto più grande di me e dei genitori che lavoravano dalla mattina alla sera ha fatto sì che, fin da piccola, avessi tutto il tempo del mondo per sprofondare nei miei pensieri, cosa che si è sempre dimostrata bellissima. Ho sempre avuto delle idee balzane, erano il mio tentativo di alleviare la monotonia della vita in provincia. Le idee che mi rimanevano in testa erano sempre quelle più rischiose, di certo le più schiocche e, senza dubbio, di gran lunga le migliori.
Una sera, nell'intimità della mia cameretta, avevo stilato una lista di tutte le destinazioni principali di dove io e la mia migliore amica immaginaria saremmo potute andare e tornare in aereo dalla mattina alla sera. Molte di queste erano in Europa, ma ce n'erano anche un paio in Africa del Nord.
Un'altra incarnazione del "resisti o spicca il volo" consisteva nello scoprire quali voli ci fossero a Linate e scegliere una destinazione a caso, pescandola da una casseruola, altrimenti riservata alla pasta scaduta che mio padre riservava alle galline. Una volta pescata la destinazione, stilavo la lista delle cose da portare in valigia: costumi, infradito, scarpe da ginnastica, lenti a contatto, occhiali da sole.
Altri momenti clou furono partire per la prima volta da sola con un viaggio organizzato, uscire senza pagare da un ristorante a Praga, correre all'incontrario di notte sul Ponte Carlo, indossare i miei abiti migliori e fingere di essere una receptionist a Budapest, finchè alla fine non fui smascherata da un cliente abituale dell'albergo e tante altre cose bellissime e vitali di cui non voglio scrivere.
Non fu la morte di Giò o la psicosi maniaco-depressiva a spingermi a fare quelle cose. Fu pura e semplice ribellione, innescata dalla noia e dalla frustrazione ( questa, per la cronaca, è un'autodiagnosi ).
Non voglio la compassione di nessuno nè l'ho mai chiesta. In fondo mi ci sono voluti tanti anni per decidermi a chiedere aiuto. Ma permettetemi di dire che, nei periodi più bui, la depressione è una malattia davvero tremenda. A volte fa sì che, chi ne soffre, appaia arrogante, maleducato, pigro e introverso, e questo quand'è in giornata buona.
In casa avevo un divano. Non è mai stato particolarmente comodo, ma ha sempre fatto la sua figura. E, cosa più importante, era la prima cosa colorata che vedevo quando tornavo a casa dal lavoro. Nei giorni in cui ero più in balia delle forze oscure, attraversavo la porta, mi sedevo e rimanevo lì finchè non era il momento di andare a letto. Ho scoperto che molti malati di depressione parlano di un luogo che è, per loro, quasi un magnete, un luogo dove si sentono al sicuro e non devono vedere nessuno nè fare nulla. Il divano verde acqua era per me un luogo sicuro e un magnete straordinario. Mi ci sedevo, perchè sapevo che, una volta lì, non mi sarei dovuta più rialzare per affrontare le cose che sapevo di non poter affrontare.
Tutti sapevano che, una volta seduta su quel divano, non mi sarei più mossa. Mia mamma lo sapeva e mi afferrava appena varcavo la porta, mi faceva girare di 180 gradi e mi portava fuori, a pranzo o a cena o in giro per qualche commissione. Passavo tutto il tempo con gli occhi fissi sul cellulare ( non mi piacciono molto gli orologi ), desiderando che i secondi passassero in fretta, per poter tornare di nuovo al mio divano. Una volta sul divano, ci sarei rimasta per il resto della serata. Era quasi una forma di paralisi: non riuscivo ad alzarmi. Come se avessi un peso invisibile sul grembo, che mi impediva di fare qualsiasi cosa. Vorrei sottolineare che la tv non era accesa, non avevo un libro e non parlavo: me ne restavo seduta lì, per ore, un giorno dopo l'altro, terrorizzata dall'idea di andare a letto, perchè sapevo che, quando avrei aperto nuovamente gli occhi, sarei dovuta uscire di casa per andare al lavoro e tutto sarebbe ricominciato da capo.
Con l'aiuto di 25 mg di Lamictal, 15 mg di Noritren, e 5 di Mirtazapina che agiva da sonnifero antidepressivo ( un ossimoro come pochi altri ), oggi sono una persona completamente diversa. Ho ancora delle brutte giornate, ma non mi sveglio più con il terrore di dover affrontare la vita, non guardo fuori dalla finestra della mia cameretta desiderando di essere il più lontano possibile e non vedo più ogni singola attività come fosse la scalata dell'Everest. Nessuna pillola renderà mai piacevole fare la fila in banca o spingere un carrello al supermercato, ma almeno ora quelle piccole cose sono in grado di farle.
Per un periodo le mie poesie migliorarono al di là di ogni mia ragionevole aspettativa. Era come se mi avessero restituito tutti gli anni della mia vita. So che suona strano ma, quando hai a che fare con la depressione, il pilota automatico diventa il tuo migliore amico. Una parte del cervello prende il sopravvento su tutto e, crudelmente, fa il minimo indispensabile per farti sopravvivere. Mi piacerebbe scrivervi che parlare con qualcuno fu la chiave del mio recupero, ma sarebbe una stronzata: furono le medicine, ad aiutarmi.
Sono rimasta seduta per ore mentre degli sconosciuti mi chiedevano: "Quand'è stata l'ultima volta che ha avuto un comportamento violento? Quand'è stata l'ultima volta che ha pensato di uccidersi? In quell'occasione, come immaginava di farlo?". Sembrava tutta roba uscita da The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd e quindi rispondevo: " Non ho paura di morire. Quando succederà, mi andrà bene. Perchè dovrei avere paura di morire? Non c'è nè ragione, prima o poi devi andartene ", che, come sapranno i fan dei Pink Floyd, sono versi tratti da quell'album. Non lo capirono mai. Ma gran parte delle cose che ho scritto viene da questo periodo, il che mi porta a sospettare che, forse, quella diagnosi di psicosi maniaco depressiva non fosse poi del tutto sbagliata.
Per la cronaca, non ho mai pensato che sarei arrivata a quest'età. La mia vita è volata. Ci sono stati alti straordinari e bassi devastanti, che forse non riuscirò mai davvero a superare. Quand'ero in ospedale, un giorno lessi la storia di un certo Peter Green, dei Fleetwood Mac originali. Nel disperato tentativo di tenere il passo con l'iniziale successo della band, i compagni di Green cominciarono a fargli pressioni perchè scrivesse un'altra hit. A metà degli anni settanta Green si sottopose all'elettroshock in un ospedale psichiatrico, dopo che gli fu diagnosticata una schizofrenia, scatentata dalla sua incapacità di accettare la fama e il successo della band che aveva fondato. Si era persino fatto crescere le unghie a tal punto da non poter più suonare la chitarra. Questa storia mi è tornata alla mente giusto un paio di paragrafi fa, probabilmente perchè, mentre me ne sto qui seduta a scrivere l'ultimo articolo del mio blog, so che, se proprio voglio essere onesta con me stessa, per circa un anno ho mangiato pesantemente e troppo in un patetico tentativo di ingrassare, perchè nessuno mi guardasse più e tutti si dimenticassero di me.
Oggi quasi tutte le persone che conosco mi vogliono un gran bene e si confidano spesso con me. I miei amici e le mie amiche hanno pianto con me, hanno sorriso insieme a me, mi hanno abbracciata, ascoltata, aiutata. Non mi stanco mai di perdermi nei loro abbracci fortissimi. Mi dà, come cantava Phil Daniels, uno straordinario senso di benessere.
I messaggi, le telefonate, le serate, i miei sorrisi, le mie parole spesso imbarazzate, le mie risate fragorose servono a rendere molto felici le persone a cui voglio bene. E, cosa più importante - almeno per il mio benessere - ho finalmente voltato l'ultima pagina di un capitolo molto turbolento della mia vita. Forse non ho molti beni materiali, ho pochi soldi ma, in quanto a felicità, tutti mi guardano con ammirazione. La mia vita, turbolenta e unica com'è stata, resta lì, per tutti quelli che vogliono conoscerla. Il mio nome è piccolo ma sta un pò dovunque, perfino su una pietra in cima all'Etna. Ma la cosa davvero importante, molto più di tutte queste sciocchezze, è che il mio nome continua a vivere, nel mondo reale, giorno dopo giorno, attraverso tutte le persone che mi hanno anche solo incrociata a una festa, all'autogrill, sul pullman di un viaggio organizzato.
E questa, me lo ripeto sempre, è l'unica cosa che nessuno potrà mai portarmi via.

Jù.

IL MONDO PRIMA

Quando avevo quattordici anni avevo una compagna di scuola che si chiamava Monica che, con il tempo, diventò una delle mie migliori amiche.
Lei, la sua mamma, il suo papà e il loro grasso gatto Pepper, sessualmente ritardato, vivevano in una buffa casa su due piani, mangiavano pane nero e semi biologici, parlavano con le piante sul balcone, bevevano molta birra e, quando erano malati, si curavano con l'argilla e le foglie di verza.
"Tu puoi bere birra?" le chiesi incredula una mattina, a scuola, nello spogliatoio della palestra, durante l'ora di Educazione fisica.
"Non tantissima, ma un pò sì. Me l'ha prescritta il Davide. Dice che mi fa crescere come voglio io".
Davide era il medico di famiglia di Monica, lo spacciatore di verza e argilla, il mentore, il guru, una figura mitologica che non ebbi mai la fortuna di incontrare, ma che immaginavo dotata di poteri paranormali, con una lunga barba bianca e un'aura di magia e saggezza, a metà tra Babbo Natale e Gandalf.
"Lui mi ha chiesto: 'Come vuoi diventare da grande? Come vuoi avere le gambe, le braccia, la pancia, le spalle, il seno e tutto il resto?' Io gliel'ho detto e lui, il Davide, mi ha assicurato che, se berrò un goccio di birra regolarmente e mi concentrerò, diventerò esattamente come desidero" raccontò Monica, tra i palloni da basket, le panche di legno e gli armadietti senza lucchetto.
La osservai. Aveva lo sguardo sognante di Alice nel Paese delle Meraviglie, un corpo fortunato, merito della birra e della lotteria della vita che distribuisce un pò a caso grazie e disgrazie, una fiducia cieca nel suo Babbo Natale privato.
Monica era, ed è tutt'ora, alta un metro e settantacinque centimetri, ha gambe lunghe e sottili che finiscono all'altezza del mio ombelico, dita affusolate, occhi blu, pancia piatta, spalle tornite e una terza di reggiseno che, nel mio personale immaginario di perfezione, è la più sublime delle taglie.
Ah, dimenticavo, lei non ha nemmeno i peli.
Purtroppo non tutte abbiamo un Davide, capace di trasformarci nella creatura perfetta che sognavamo da piccole. Purtroppo la formula magica non esiste e nemmeno Davide, probabilmente. Purtroppo di Monica ne nasce una ogni cento.
Noi, le altre, siamo sempre troppo alte, troppo basse, troppo magre, troppo grasse, troppo pelose, troppo slavate, troppo anonime, troppo ingombranti, troppo diverse da come sarebbe opportuno.
Opportuno per chi, per cosa?
Per lo specchio, per la tizia carina che ci passa attraverso, per il tizio carino che ci scruta al bancone del bar, per nostro padre che tanto ci guarda comunque come se fossimo Madonne, per la nostra compagna di banco, collega d'ufficio, amica del cuore che magari è proprio una Monica e un giorno, armata delle migliori intenzioni, ci domanda: "Hai mai provato con la birra?"
Ma soprattutto opportuno per noi, streghe autodistruttive, giudici implacabili, indulgenti con gli altri e feroci con noi stesse, che vediamo immondi crateri dove ci sono minuscoli brufoletti, devastanti inestetismi al posto di impercettibili nei, disgustose protuberanze invece di seducenti rotondità.
Tempo fa ho trovato in un cassetto un piccolo album di fotografie. Ritraevano una ragazzetta vestita da hippie, per un Carnevale. Aveva i capelli lunghi, gli occhi grandi, un sorriso spavaldo, l'aria divertita. Sembrava contenta, quasi felice. Certo, aveva in testa un'inguardabile coroncina di fiori, era troppo magra, non altissima, senza tette, e, probabilmente, sotto quel gonnellone, nascondeva parecchi peli superflui. Ma era proprio carina.
Ero io, esattamente ai tempi della conversazione con Monica sulla birra, quando rimproveravo a mia madre di non avermi affidato a un Davide, alla sua argilla, alle sue foglie di verza e alla sua bacchetta magica capace di trasformarmi in quella che avrei voluto essere. Quella tizia bellina che rideva di fronte all'obiettivo ero io quando mi deprimevo allo specchio, quando pensavo che mai avrei trovato uno straccio di principe azzurro per colpa del triliardo di imperfezioni che mi affligevano, quando mi vedevo brutta e sbagliata, quando osservavo me stessa attraverso un paio di occhiali deformanti rossi.
Ho scoperto che è così per molte, forse per tutte, magari anche per quelle come Monica. "Tu guarda quanto ero carina. E idiota" diciamo a distanza di anni di fronte a fotografie sbiadite di piccoli cigni.
Qualche anno fa circolava in rete un messaggio a proposito di noi che, crescendo e invecchiando, impariamo a chiudere in un cassetto il brutto anatroccolo in cui ci specchiamo, acquisendo non la sicurezza, che è un traguardo impervio e inarrivabile, ma la noncuranza, la leggerezza e l'autoironia di cui difettiamo da piccole. Si intitolava "Il cappello color porpora", come quello che avremo il coraggio di indossare ad ottant'anni, quando non avremo tempo di guardarci ma solo di divertirci, alla conquista del mondo.
Sapere che a ottant'anni ci metteremo in testa copricapi improbabili e saremo invicibili è certamente di grande consolazione ma forse, in attesa di quell'età gloriosa, dovremmo provare a rilassarci per goderci, almeno un pò, i decenni che si separano da quel traguardo. E dovremmo anche capire che viaggiamo tutte sulla stessa barca, con lo stesso carico di mostri, nella borsetta e nello zaino, che dovremmo buttare in mare, tutte insieme. Dopo, staremmo molto meglio, con noi stesse e con il mondo.

Jù.

MAI COME VOI

Dopo due settimane a Salvador de Bahia è chiaro: per i brasiliani noi italiani siamo come Balotelli - scuri di pelle, imprevedibili, attaccabrighe. A loro piacciamo così, con il fisico da spiaggia e la cresta in cima.
La mutazione genetica del paisà tracagnotto e furbo è finalmente avvenuta, possiamo rilassarci. Quando, nel 1933, l'immigrato Giuseppe Zangara, di origini calabresi, sparò al neoeletto presidente Roosvelt, i giornali americani pubblicarono una sua foto tra due poliziotti: arrivava a metà del torace e aveva la faccia spaurita. Titolarono: "Un esemplare tipico della sua razza". Sui siti brasiliani di oggi circolano immagini di Balotelli con sottofondo di Toto Cotugno: "Lasciatemi giocare...io sono un italiano".
La cosa strana ma non imprevedibile è che anche da casa erano giunti segnali di accettazione, se non proprio di identificazione. Perchè aveva segnato all'Inghilterra certo, ma c'era di più. Ed è l'opposto di quel che è successo in Brasile.
Là, in Brasile, piace Supermario. Adorano la sua sregolatezza, si ritrovano nel suo "stile" di vita, gli preconizzano lieti un futuro da Adriano. Uno di loro, uno di noi.
In Italia, invece, si era cominciato a teorizzare con qualche entusiasmo la normalizzazione di Balotelli. Ora è padre. Presto sarà marito. Che le due vicende coinvolgano donne diverse e passaggi rocamboleschi tra tribunali, tweet notturni e terze comode, è un dettaglio secondario. Siamo un Paese cattolico e l'opinione comune è che si possa crescere solo attraverso forme più o meno regolari di accasamento.
Balotelli è sulle orme di Cassano. Anche di lui a un certo punto, mentre giocava nella Sampdoria, si affermò che era maturato, andato lontano dal se stesso che nessuno tollerava più. Questo perchè aveva sposata una principessina della pallanuoto e con lei aveva messo al mondo Christopher ( Lionel, a seguire ). Iniziò il campionato sotto questi auspici. Tre mesi dopo aveva mandato a stendere il suo presidente e si ritrovava senza squadra.
Niente da fare. Il luogo comune è più forte dell'evidenza. L'allenatore, la curva, il popolo intero si sentono rassicurati dal calciatore maritato e con prole. Gianni Rivera non perse colpi per l'età, si sosteneva, ma per la relazione mai consacrata con la soubrette Elisabetta Viviani. Ronaldinho è stato fregato dalle notti bianche. E Buffon mica ce la conta giusta con quei dolori alla schiena. Come no.
Balotelli è uno strano ragazzo. Probabilmente non crescerà mai del tutto perchè ha una ferita che glielo impedisce, e che lui riapre a ogni difficoltà o critica per ricordarsi che ha un credito con la vita e gli altri sono lì per saldarlo. Appartiene non alla generazione ma alla band di calciatori rockstar. E infatti sono proprio le rockstar come Liam Gallagher a riconoscerlo e amarlo. Non lo definiscono i soldi, le auto, le donne, ma la svagatezza, l'autolesionismo, l'imprevedibilità. Vale anche per Pirlo, ma quello disegna capolavori nella cornice, Balo la spezza e dipinge sul muro. Pirlo tira meravigliosamente sempre la stessa punizione con il marchio di fabbrica. Balotelli, ogni tanto, se l'inventa. Dirgli dove stare in campo è fiato sprecato: dopo un pò svaria.
L'impressione è che l'unico allenatore ad averlo capito veramente sia Prandelli che, da giocatore normodotato e portatore d'acqua di Platini, teorizza: "Di fronte al talento puro, aspetti e speri." Il suo vantaggio è: averlo allenato per un mese e non per un anno.
Come da oroscopo, Balotelli ha cominciato forte perchè era ancora libero da condizionamenti. Non lo sospinge tanto la promessa di Fanny quanto l'idea del gioco fine a se stessa. Se pensasse che una partita è una questione decisiva, che un quarto di finale ha un qualche rilievo, sarebbe finito. Se si rendesse conto che poi vanno in discoteca a braccetto e non si scherza più, non si sposerebbe. 
Nel suo gesto del dito alla bocca a fine partita con l'Inghilterra molti hanno letto: "E adesso state zitti!", pochi: "Ecco fatto, non c'è altro da dire". Probabilmente gli è venuto e basta. Se lo interpretasse, lo snaturerebbe. Se si normalizzasse, si snaturerebbe. E' - e non può non essere - quella cosa lì: che fa quel che vuole e quando vuole. Solo così è Supermario. Disciplinalo, mandalo al supermercato con Fanny, ai giardinetti con Pia e ti ritrovi Mariotto.
Obbedendo ai consigli farebbe probabilmente due gol in più, ma non sarebbe se stesso. Dovendo scegliere, lo ha già fatto.
Molti lo vorrebbero in area. Lui vorrebbe un altro che ci stesse al posto suo per fare quel che gli pare. Prandelli l'ha lasciato solo, ma non lo ha guidato più di tanto. Dovremmo fare tutti la stessa cosa. Mettere la testa a posto? Conta che la metta sui crossi di Candreva. E li ci arriva Supermario, non Mariotto.

Jù.