LA SINDROME DI JOHN KENNEDY

Questa amica si siede, beve un sorso, mette giù il bicchiere, dice: "Non devo più vederla. O salterà la mia storia. Non posso permettermelo. Tronco oggi, adesso. Basta. Mai più. Cancellata".
Aspetto. Si crogiola nella decisione presa. Offro consulenza psicologica per cinque centesimi. Dico: "Bene. Poi ti prenderà la sindrome di John Kennedy".
"In che senso?"
"Tu diventerai John Kennedy".
"Spiegati".
"John Kennedy. Governa meno di tre anni poi muore ammazzato. Giovane, bello, sorridente, atterrato al Love Field con la promessa di una nuova frontiera. Conosci la storia. Muore. Da martire. E diventa un mito. Cinquant'anni dopo siamo ancora qui, ossessionati, a parlarne. Chi l'ha ammazzato? Come scopava? Amava, a modo suo, Jackie? Ma soprattutto: che presidente sarebbe stato se non fosse morto a Dallas? Come sarebbe cambiato il destino di tutti quanti? Il punto è questo: se Kennedy vive, delle due l'una, o diventa davvero un grande e svapora, manco rieletto come un Carter o sputtanato come Clinton. Anche se non ce li vedo, perfino i repubblicani, a criticare un uomo per essere andato a letto con Marilyn, mica Monica. Invece Kennedy muore e diventa molto più che un grande. Diventa un mito, appunto. Il fantasma di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. L'icona del rimpianto. La donna con cui vuoi troncare adesso, subito: stessa cosa. Falla fuori oggi e diventa John Kennedy. Forever. Fra qualche anno, decennio, alla fine della vita, ti girerai indietro e ti domanderai: come sarebbe stato se? O peggio, ti dirai: quanto sarebbe stato bello se. E' una sindrome inevitabile. Donna avvisata: stai ammazzando John Kennedy".
Mi guarda perplessa e spaventata. Sa che c'è del fondamento nelle mie parole. Potrei farle decine di esempi.
Prendete James Dean. Fa tre film (niente di che) e muore. Brucia la sua gioventù, come da copione. Avesse vissuto, avesse fatto trenta film, delle due l'una: o diventava un memorabile Marlon Brando oppure un trascurabile Matt Damon. Invece: il John Kennedy dello schermo.
Da bambina vidi giocare nella Lazio un giovane centrocampista di nome Roberto Baronio. Il prossimo Bulgarelli, si disse. Un pugno di partite stupende e poi un brutto infortunio per un'entrata killer di non ricordo chi. Baronio è stato uno dei miei Kennedy. Se non si fosse rotto chissà che sorte diversa e magnifica avrebbe avuto la Lazio.
Li riconosco al volo le persone che hanno incontrato John Kennedy. Non è difficile, è capitato quasi a tutti. Prima o poi uno compie l'errore che sta per fare la mia amica: prendere una storia qualunque e farne un mito, il rimpianto dei giorni d'inverno, John Kennedy.  A cinquant'anni dalla sua morte, Jill Abramson, direttrice del New York Times, ha scritto un articolo dal titolo The Elusive President, il presidente inafferrabile, in cui afferma che: "Valutarlo è impossibile, poichè il martirio ha sovrastato l'uomo che era e i risultati che ha ottenuto". Poi aggiunge: "Su di lui hanno scritto quarantamila libri e non uno che fosse degno di nota". Dissento.
Qualche mese fa ho finito If Kennedy Lived, di Jeff Greenfield. L'autore è un commentatore televisivo appassionato di storia alternativa, quella che comincia dalla domanda: che cosa srebbe successo se? E dà tutte le risposte. Se, scrive Greenfield, a Dallas la mattina del 22 novembre 1963 avesse continuato a piovere, l'auto del presidente avrebbe mantenuto il tettuccio sollevato, il plexiglas avrebbe fatto parziale scudo ai colpi sparati da Oswald, Kennedy sarebbe stato ferito, ma sarebbe sopravvisuto, ancora una volta.
Idolatrato dalla gente, avrebbe conquistato un secondo mandato contro Goldwater. Avrebbe ritirato le truppe dal Vietnam, avviato un rapporto con Kruscev, scaricato Lyndon Johson. Avrebbe difeso i diritti civili, seppur con prudenza e per tornaconto. Dopo otto anni con lui, l'America sarebbe passata direttamente a un'altra star, Ronald Reagan: impossibile a quel punto retrocedere a Nixon. Jackie non avrebbe divorziato:  uscendo dalla Casa Bianca sarebbe andata direttamente a New York con i figli a occuparsi di editoria, risparmiandosi l'odissea greca. If Kennedy Lived, se Kennedy avesse vissuto. Invece smise di piovere, il tettuccio fu abbassato e il resto è storia. James Dean è bruciato, Roberto Baronio ha smesso anzitempo di giocare a pallone. E la mia amica troncherà la relazione pericolosa.
Dopodichè, per altri cinque centesimi, la verità.
Noi vogliamo John Kennedy nelle nostre vite. Ci serve qualcosa che finisca adesso perchè possa non finire più: un fantasma a futura memoria, il dolce riampianto che verrà, quella cosa che, arrivati al fondo di una vita con alti e bassi, potremo rievocare per dire che abbiamo avuto l'altra possibilità e se avesse continuato a piovere, se non ci fosse stato l'incidente, se non avessimo troncato, sarebbe stato tutto stupendo: diritti civili, due Oscar e avremmo vissuto felici e contenti.
In lode delle vite non vissute s'intitola non a caso l'ultimo libro della psicostar inglese Adam Phillips. In lode. La storiografia alternativa è una consolazione, un esercizio di stile, una medicina immaginaria.
La vita è quel che resta dopo ogni bivio, dopo la curva dietro la quale hanno sparato a John Kennedy.
Sarebbe stato meglio se avesse continuato a piovere.

Bacioni!

Jù. 



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