IL MONDO PRIMA

Quando avevo quattordici anni avevo una compagna di scuola che si chiamava Monica che, con il tempo, diventò una delle mie migliori amiche.
Lei, la sua mamma, il suo papà e il loro grasso gatto Pepper, sessualmente ritardato, vivevano in una buffa casa su due piani, mangiavano pane nero e semi biologici, parlavano con le piante sul balcone, bevevano molta birra e, quando erano malati, si curavano con l'argilla e le foglie di verza.
"Tu puoi bere birra?" le chiesi incredula una mattina, a scuola, nello spogliatoio della palestra, durante l'ora di Educazione fisica.
"Non tantissima, ma un pò sì. Me l'ha prescritta il Davide. Dice che mi fa crescere come voglio io".
Davide era il medico di famiglia di Monica, lo spacciatore di verza e argilla, il mentore, il guru, una figura mitologica che non ebbi mai la fortuna di incontrare, ma che immaginavo dotata di poteri paranormali, con una lunga barba bianca e un'aura di magia e saggezza, a metà tra Babbo Natale e Gandalf.
"Lui mi ha chiesto: 'Come vuoi diventare da grande? Come vuoi avere le gambe, le braccia, la pancia, le spalle, il seno e tutto il resto?' Io gliel'ho detto e lui, il Davide, mi ha assicurato che, se berrò un goccio di birra regolarmente e mi concentrerò, diventerò esattamente come desidero" raccontò Monica, tra i palloni da basket, le panche di legno e gli armadietti senza lucchetto.
La osservai. Aveva lo sguardo sognante di Alice nel Paese delle Meraviglie, un corpo fortunato, merito della birra e della lotteria della vita che distribuisce un pò a caso grazie e disgrazie, una fiducia cieca nel suo Babbo Natale privato.
Monica era, ed è tutt'ora, alta un metro e settantacinque centimetri, ha gambe lunghe e sottili che finiscono all'altezza del mio ombelico, dita affusolate, occhi blu, pancia piatta, spalle tornite e una terza di reggiseno che, nel mio personale immaginario di perfezione, è la più sublime delle taglie.
Ah, dimenticavo, lei non ha nemmeno i peli.
Purtroppo non tutte abbiamo un Davide, capace di trasformarci nella creatura perfetta che sognavamo da piccole. Purtroppo la formula magica non esiste e nemmeno Davide, probabilmente. Purtroppo di Monica ne nasce una ogni cento.
Noi, le altre, siamo sempre troppo alte, troppo basse, troppo magre, troppo grasse, troppo pelose, troppo slavate, troppo anonime, troppo ingombranti, troppo diverse da come sarebbe opportuno.
Opportuno per chi, per cosa?
Per lo specchio, per la tizia carina che ci passa attraverso, per il tizio carino che ci scruta al bancone del bar, per nostro padre che tanto ci guarda comunque come se fossimo Madonne, per la nostra compagna di banco, collega d'ufficio, amica del cuore che magari è proprio una Monica e un giorno, armata delle migliori intenzioni, ci domanda: "Hai mai provato con la birra?"
Ma soprattutto opportuno per noi, streghe autodistruttive, giudici implacabili, indulgenti con gli altri e feroci con noi stesse, che vediamo immondi crateri dove ci sono minuscoli brufoletti, devastanti inestetismi al posto di impercettibili nei, disgustose protuberanze invece di seducenti rotondità.
Tempo fa ho trovato in un cassetto un piccolo album di fotografie. Ritraevano una ragazzetta vestita da hippie, per un Carnevale. Aveva i capelli lunghi, gli occhi grandi, un sorriso spavaldo, l'aria divertita. Sembrava contenta, quasi felice. Certo, aveva in testa un'inguardabile coroncina di fiori, era troppo magra, non altissima, senza tette, e, probabilmente, sotto quel gonnellone, nascondeva parecchi peli superflui. Ma era proprio carina.
Ero io, esattamente ai tempi della conversazione con Monica sulla birra, quando rimproveravo a mia madre di non avermi affidato a un Davide, alla sua argilla, alle sue foglie di verza e alla sua bacchetta magica capace di trasformarmi in quella che avrei voluto essere. Quella tizia bellina che rideva di fronte all'obiettivo ero io quando mi deprimevo allo specchio, quando pensavo che mai avrei trovato uno straccio di principe azzurro per colpa del triliardo di imperfezioni che mi affligevano, quando mi vedevo brutta e sbagliata, quando osservavo me stessa attraverso un paio di occhiali deformanti rossi.
Ho scoperto che è così per molte, forse per tutte, magari anche per quelle come Monica. "Tu guarda quanto ero carina. E idiota" diciamo a distanza di anni di fronte a fotografie sbiadite di piccoli cigni.
Qualche anno fa circolava in rete un messaggio a proposito di noi che, crescendo e invecchiando, impariamo a chiudere in un cassetto il brutto anatroccolo in cui ci specchiamo, acquisendo non la sicurezza, che è un traguardo impervio e inarrivabile, ma la noncuranza, la leggerezza e l'autoironia di cui difettiamo da piccole. Si intitolava "Il cappello color porpora", come quello che avremo il coraggio di indossare ad ottant'anni, quando non avremo tempo di guardarci ma solo di divertirci, alla conquista del mondo.
Sapere che a ottant'anni ci metteremo in testa copricapi improbabili e saremo invicibili è certamente di grande consolazione ma forse, in attesa di quell'età gloriosa, dovremmo provare a rilassarci per goderci, almeno un pò, i decenni che si separano da quel traguardo. E dovremmo anche capire che viaggiamo tutte sulla stessa barca, con lo stesso carico di mostri, nella borsetta e nello zaino, che dovremmo buttare in mare, tutte insieme. Dopo, staremmo molto meglio, con noi stesse e con il mondo.

Jù.

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