#WMA15

Capita di non dormire, la notte.
A me è successo di recente perchè mi trovavo in albergo, la stanza sopra un locale alla moda con gente in strada, bicchiere di birra in mano, a parlare di chissà cosa.
Allora mi sono vestita e sono scesa ad ascoltare meglio quello che mi giungeva come un brusio indistinto e fastidioso, tra i rumori dei motorini e i clacson delle auto. Mi sono improvvisata antropologa del "popolo della notte".
Immersa in una massa di giovani con la caratteristica dei giovani di oggi: quella di avere un'età estremamente elastica (come elastico è il mondo che ci circonda) tra i venti e i cinquant'anni. La prima frase che ho sentito, detta da un elegante quarantenne ad un'amica, è stata "Alla fine mi ha tolto l'amicizia su Facebook". La conversazione continuava su questioni personali che non c'è motivo di riportare qui, e che io stessa stento a ricordare. Ma è stata l'inizio di una strana esperienza. Tutti i dialoghi che intercettavo avevano a che fare con Facebook. O perlomeno, Facebook in qualche modo faceva capolino nei discorsi.
Quando Mark Zuckerberg, solo una decina di anni fa, divenne famosissimo e ricchissimo per lo straordinario impatto sociale del suo nuovo social, nessuno e nemmeno lui stesso nascose quanto il "Libro delle facce" (traduciamolo così) si proponesse innanzitutto come strategia telematica per "rimorchiare". "
"Rimorchiare", significa poi, nello sviluppo dei fatti, un sacco di cose: intessere relazioni, vederle trasformare e morire. Ma oltre al rimorchio c'è un'altra funzione, parimenti importante, che è quella di registrare la nostra rete di relazioni, il suo andamento. A un paio di lustri dal suo esordio, Facebook è diventato modalità soverchiante del nostro, avrebbe detto un noto filosofo dello scorso secolo, "essere nel mondo".
Tornando alla notte da cui ero partita, rievocando me sola in mezzo a una massa di persone parcheggiate in mezzo alla strada, mi sono sentita improvvisamente sola. Più sola del solito. Più sola di una persona che sta semplicemente da sola, in una sorta di solitudine collettiva, da "decentramento antropologico".
Tutti in strada, a fare le ore piccole per parlare di quello che succede "là". Un "là indefinito" e onnipervasivo, dove ci si incontra con estrema facilità e con estrema facilità ci si abbandona. In una specie di mondo rovesciato, ho avuto l'impressione di essere, assieme a tutti, fuori luogo, a commentare quello che avviene nel "mondo reale odierno", che è piuttosto nei computer, nei tablet e nel telefonini di (quasi) tutti. Un senso di spaesamento...Viviamo dunque in un mondo in cui siamo perennemente connessi (e ne viviamo la prepotente invasività ogni volta che un social, per manutenzione o chissà cosa, "salta" per qualche ora, creando piccoli panici mondiali).
Ma mi sono chiesta quanto poi, nel frattempo, siamo effettivamente inter-connessi. La differenza, grammaticalmente, sta in un prefisso. Nei fatti, in una delle grandi sfide del nostro tempo: cosa succede se ci incontriamo nel mondo reale più che altro per commentare quello che facciamo in quello virtuale?


   CANZONI CONSIGLIATE: Canzone delle osterie di Fuori Porta, Francesco Guccini + Un guanto, Francesco De Gregori. 
La Storia della poesia italiana che si fa canzone.

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