TATTOOS OF MEMORIES

In fondo al campo da calcio dell'oratorio, c'era una pila di legni, tipo quelli che vedi galleggiare nei fiumi canadesi. Ve lo dico perchè io stavo seduta lì. Angelo fumava il gambo di un fiore e diceva che suo padre faceva il macellaio e che lui avrebbe fatto la stessa cosa. Io non sapevo ancora bene tra maestra, presidente degli Stati Uniti o calciatrice del Brasile, però in un certo senso mi stavo dando da fare. Non a scuola.
Con la penna.
Avevo visto la settimana prima Ritorno al futuro, ma visto che viaggiare nel tempo e incasinare la vita dei miei non era contemplata tra le professioni possibili, folgorata da una scena dove praticamente mi veniva suggerito "O impari a darti da fare o non avrai mai un ragazzo", decisi di provare a cimentarmi nel migliore mestiere a cui una quindicenne possa aspirare: " la figa".
Ecco che maltrattavo i miei fogli  "Non potrai vivere delle cose che scrivi, la vita è tutta un'altra storia", mi aveva detto mia madre. 
Con le sole due frasi ad effetto che conoscevo, davanti allo specchio leggevo le cose che scrivevo, credendo di essere una scrittrice bravissima e sentendomi finalmente libera. Idiota e felice alla sua facciazza. Perchè certe parole mi avevano ferito e mi ci buttai sotto, forse più per dimostrare qualcosa a lei che a me stessa.
Già due mesi dopo soltanto mamma mi chiese di scriverle una frase "delle mie" per degli auguri, ma le dissi di no. Che soddisfazione. 15-0 per il mio orgoglio con una rabbia della Madonna.
Sto lì con Angelo che non gliene frega niente se io sia Susanna Tamaro o no, gli bastano le cazzate che dico e quando non gli bastano più di solito non è che si lamenta, fa solo "Andiamo a farci una partita a calcetto" e io metto via la baracca.
Verso la settima volta che rileggo quello che ho scritto arriva Walsch.
Walsh era il miglior scrittore della terza D. Arriva col vestito d'ordinanza. Giubbotto elegante scolorito e i pantaloni di un nero-funerale.
"Sei tu che dici di saper scrivere?".
"Io non ho detto un bel niente".
"Beh...mi hanno detto che vuoi rubarmi il posto".
"No, guarda, io non so neanche da che parte si inizia a scrivere...".
"Esatto...E sia chiaro che quella roba lì, qui la faccio già io".
"Perchè, hai paura?"
E qui Walsch mi diede una stilettata. Non usò nessun coltellino a serramanico, tranquilli. Usò le parole, ma andò a fondo.
"No. DI UNA CON LA ERRE MOSCIA NON POTREI MAI AVER PAURA.
Si volta e se ne va.
Beccata. Abbassai la testa. Angelo non fumava più nessun gambo di fiore e stringeva forte i pugni, il collo gonfio, nel tentativo di dimostrarmi che era dalla mia parte, ma non sapeva bene da dove cominciare a difendermi. Certo, una frase da un amico, in quel momento, mi sarebbe tornata comoda, ma funziona sempre così.
E' nei telefilm che hai sempre la battuta pronta e le risate registrate.
Passai quell'estate a cercare di "guarire" quello che fino ad allora non mi era sembrato mai un difetto, ma che adesso pesava come una tonnellata sulla buona riuscita della mia missione.
Guarire...un'altra sonora stronzata. Che poi, quelli messi da parte, suscitano sempre simpatia. Ma gli adolescenti sono le creature più ciniche e spietate mai viste. Darwin lo omise.
Crescendo, rimpiangi di non essere più così diretta come quando avevi tredici anni. E allora, che cosa volevo per me?
Volevo una bici che andasse. Un amico che ti scegliesse anche quando non eri da scegliere. Una porta per uscire che restasse aperta, quando tirava vento.
O forse, molto più semplicemente, volevo essere leggera come una figa, non pesante come la zimbella della classe a cui fai ripetere:"Orrore un ramarro marrone!".
Comincia dall'inglese. Lì la erre non esiste. Il mio paradiso.
E poi, sapere qualche parola in più in una lingua che si cominciava a sentire dappertutto, poteva pure tornarmi utile.
Stava tutto nel modo in cui mettevi la lingua. "Pensa di avere una patata in bocca" mi aveva detto quel logopedista mancato di mio fratello.
Gli diedi retta, anche se mi veniva da vomitare, a pensarci.
Ma la erre sparì. ( Salvo tornare, a gentile richiesta, nelle notti contraddistinte da una minaccia etilica ).
Alle superiori mi misero in banco con Cavagnis, una tipa che pronunciava malissimo la erre, pure peggio di me al minimo storico. Di nome faceva Marcella, ma quando le chiedevano come si chiamava lei riusciva a dire solo...Marvella. Marvella, possibile? Povca tvoia che imbavazzo.
E infatti lei si sentiva imbarazzata per colpa di tutti quelli inetti che la prendevano per il culo dalle otto all'una.
Io non faccio l'eroina di mestiere, ma un buon dieci punti sul mio patentino di figa, credo che me li guadagnai astenendomi dal prenderla per il culo.
Lei credeva che lo facessi naturalmente perchè ero la sua compagna di banco e con lei avrei dovuto vivervi un anno intero, come un affittuario. Dovevo pur aver bisogno di lei qualche volta per una penna, un foglio, un numero, un fazzoletto.
Ma non era così. Io non la prendevo per il culo perchè riconoscevo la sua muta sofferenza.
Otretutto sembrava non riuscire o voler far qualcosa per cambiare. Così una mattina d'ottobre, che fuori pioveva e dentro c'era inglese, le dissi:
"Cavaaa? Non te la prendere. Tu di inglese sei avvantaggiata. Con la tua erre ci fotti tutti quanti".
E infatti leggeva Shakespeare che era una meraviglia, mentre gli altri continuavano a far rabbrividire la prof. con i loro "Worrrrrrrking", "rrrrred", e brrrrrrrrave pirrrrrrla che non sapete leggere una parola d'inglese.
Roberto invece aveva la mia età e non aveva mai smesso di balbettare. Ora. Avere davanti uno che tartaglia è una faccenda piuttosto seria. E' difficile riuscire ad assumere un comportamento quantomeno degno. Magari cerchi di finire la parola che lui ha cominciato a dirti la settimana scorsa ed è ancora lì che tenta. E può darsi la prenda a male. Se si tratta di un ragazzo, poi, tenti di metterlo ancora più a suo agio, sì. Ma in che modo?
Roberto era un dolce casinista come me dagli occhi verde che all'asilo mi pestava i piedi e io in cambio gli raccontavo storie mostruose che avvenivano nella cucina di casa mia e che le vendevo per vere.
Tipo che mia madre aveva cucinato mio fratello, io me l'ero mangiato e poi l'avevo vomitato perchè sapeva di filo spinato e lui s'era rimesso insieme, come succede al mercurio quando rompi un termometro.
Roberto faceva ridere tutti, poi tutto a un tratto si bloccava e tu speravi che ce la facesse. Facevi di sì con la testa, per infondergli coraggio. Però il più delle volte lui non riusciva a terminare quella maledetta parola che aveva celata nei canyon della sua mente, così abbassava lo sguardo, affranto.
Le stesse volte che gli avrei infilato volentieri la mia mano intera in bocca, per scavare oltre la sua lingua ed estrargliela a forza.
Successe una sera di gennaio che c'eravamo tutti. Erano appena cominciate le superiori e il gruppo delle medie si stava sciogliendo. Doveva essere una festa, ma stavamo un'altra volta litigando furiosamente.
Roberto stava zitto con il capo chino che pareva volesse controllarsi le suole delle scarpe d'in piedi, quando caccia un urlo e tutti si ammutoliscono. Fu come un singhiozzo.
"Vvvvvvv....vvvvvv....vvveeeeeer...ggggggg....gggooooo.....gnaaaaaaaaaaa!!".
Stavolta non c'era più nessuno ad annuire con la testa per incitarlo a proseguire. Eravamo tutti stretti alla gola da un mastodontico silenzio. Come struzzi insabbiati.
"Quando Dany sssi è rotto la gamba e lo abbiamo accompagnato tuttttttti all'ospedale? Eh? Ve lo rrrrrrrriccccccordate? Dove siamo finiti? Vi volevo così bene".
Noi sembravamo un mammut ritrovato congelato sotto quintali di ricordi. Lui smise semplicemente di parlare e uscì di corsa piangendo più forte.
Avrei voluto inseguirlo e dirgli che mi dispiaceva, che poteva dare tutta la colpa a me se stavamo litigando, se la promessa di restare amici indissolubili si era sgretolata appena sotto le nostre firme in calce. Ma restai immobile, come gli altri, come spaventata dai latrati di un cane che doveva averci fatto paura da bambini.
Volevo bene a Roberto. Quella sera, comunque erano andate le cose, ero davvero, oltremodo, fiera di lui.
Aveva sconfitto per un momento il suo problema sotto cinquanta paia d'occhi sterili che lo trapassavano, aspettando la parola successiva.
Avesse parlato chiunque altro sarebbe stato interrotto. Lui no. Era l'unico che avrebbe potuto farlo.
Mi dissi che gli avrei detto grazie e scusa di qualsiasi cosa l'avesse ferito, appena l'avessi rivisto. Due parole che non riuiscii più a dirgli, perchè andò a vivere via, dalla madre, prima che potessi riuscirci.
Così il 6 marzo 2006, qualcuno salì su un palco con una chitarra scordata e i capelli assurdi, diede le spalle al pubblico con una fifa blu, trovò appena il coraggio di voltarsi senza inciampare nel cavo, prendere con una mano il microfono e balbettare: "Questa è per Roberto. ".
"Roberto" lo dissi con la erre moscia.
:-)

1 commento:

  1. Anonimo25.9.13

    Jù, quando ti si legge è come viaggiare su due binari (ben distinti fra loro, seppur paralleli e sincronici): - uno permette di percorrere il contenuto dello scritto a piedi e... di corsa, per la forza prorompente dell'empatìa che, di riflesso alla tua, spacca il cuore: ci si sente accorciare il respiro e, nel contempo, ti si vorrebbe raggiungere via etere, per ringraziarti e stringerti forte forte al proprio cuore; sull'altro (binario), viaggia il rintuzzare della mente che condisce ogni tua frase con un 'Ma, santa Madre Cosmica, quant'è brava a scrivere questa qui!'. P,S.: Ieri ho lasciato ai piedi di un tuo altro 'incanto' di post un commento ma... pare che l'inoltro non sia andato a buon fine, per cui ora ti spedisco questo sotto la voce 'Anonima' ma sappi che mi chiamo come tua madre e tua nonna materna :-)

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