GIO'

Ricordo ancora il giorno che mi sorpreso a rubare.
Avevo otto, forse nove anni, e il supermercato era uno di quelli piccoli, di quartiere, dove dalle casse riesci a tenere d'occhio tutte le corsie. Nel reparto cancelleria avevo visto una gomma rosa a forma di cuore e non avevo saputo resistere. Arrivò una delle cassiere e mi disse di tirar fuori subito quello che avevo preso, che tanto lei mi aveva vista. Senza nemmeno guardarla negli occhi le restituii la gomma e scappai via.
La paura è come la ricordo quel giorno. Il cuore che comincia a battere forte, un rumore assordante che dal petto ti arriva fin dentro le orecchie e non senti più nemmeno le tue stesse parole. Tutto all'improvviso è così reale da non sembrare vero. Di quel momento ho chiaro ogni dettaglio. La cassiera che portava una gonna rosso scuro e dei mocassini neri. Vicino alle gomme a forma di cuore c'erano degli astucci della Seven blu. La gente che faceva la fila alle casse si voltò a guardarmi. Corsi via con il cuore gonfio di spavento. Nel tempo che impiegai per arrivare a casa la paura si tramutò in vergogna e decisi che non l'avrei mai raccontato a nessuno.
Quando al mio ex fidanzato dissero che aveva una forma acuta di leucemia la paura arrivò puntuale come quella volta: mi afferrò la gola e si mescolò al sangue e quando arrivò al cuore lo sbranò.
Aveva diciannove anni, si chiamava Giovanni. Nove mesi dopo è morto.
Vivere nella paura, adesso lo so, è il peggiore degli incubi, ed è così che è vissuto il mio ex fidanzato per tutto quel tempo, con quel pensiero di morte giorno dopo giorno, ora dopo ora. Prese l'abitudine di tenere accesa la piccola lampada sul comodino per tutta la notte e di non chiudere più le persiane. Cominciò a dire che le stanze erano buie, che dalle finestre non entrava abbastanza luce. Iniziò la sua battaglia contro l'oscurità facendo togliere a sua madre le tende dal soggiorno, e proprio lui che aveva sempre amato la notte iniziò a odiarla.
La sua non è mai stata una famiglia tradizionale, papà mamma fratelli sorelle. Sua madre e sua nonna erano tutta la famiglia che aveva. Suo nonno era morto che era ancora piccolo e suo padre non l'ha mai conosciuto. Poi se ne è andato anche lui, lasciando me, sua madre e sua nonna sole, a pensare a un futuro che ci spaventava.
Tra le cose che conservo ancora di noi c'è il video che Giovanni fece il giorno del suo diciottesimo compleanno, quando festeggiamo anche i miei diciassette. E' nella libreria dei fumetti qui a casa mia. Dopo la sua morte l'ho rivisto un sacco di volte. C'è un momento, quando sto per soffiare sulle candeline: si vede lui alle mie spalle e sul tavolo davanti a noi c'è una torta enorme. Io sono in piedi sulla sedia e lui mi cinge la vita con le braccia. Mi sta dicendo qualcosa all'orecchio, una di quelle cose che si dicono ai compleanni, tipo guarda che bella torta, l'audio è pessimo, non si riesce a sentire e purtroppo non ci si può fare niente, così mi aveva detto il tecnico del negozio dove l'avevo portato. Io alzo una mano e gli tocco una guancia mentre fisso la torta davanti a me. So che può sembrare impossibile, ma io quel momento me lo ricordo. Ogni volta che mi rivedo penso la stessa cosa: che il tempo non è mai passato, io sono ancora lì, con la voce di Giovanni che mi carezza la guancia. Ed è la sola cosa che vorrei. Tornare indietro. Fermare il tempo.
Dopo la diagnosi lo ricoverarono in ospedale e cominciò subito le terapie, ma tutti i medici che lo visitarono e che lessero la sua cartella clinica erano bravi a raccontare bugie e a sorridere. Nessuno si sbilanciava troppo, alcuni erano criptici, altri freddi e distaccati. Continuarono a curarlo perchè era ancora giovane. Giovanni volle sapere fin dall'inizio, e quando sapemmo di sapere fu come stare sulle montagne russe senza conoscere il tempo della corsa. Come sentirsi afferrare il cuore.
A dirmelo fu lui. Il giorno dopo non andai a scuola - avevo diciasette anni e facevo il liceo - e neppure quello dopo ancora. Quando alcune mie compagne di classe mi chiamarono, inventai una scusa e dissi loro di avvisare gli insegnanti che stavo male ma sarei tornata presto. Non dissi niente della leucemia del mio fidanzato, non volevo rispondere alle loro domande e soprattutto non volevo che lo sapessero tutti.
In quel momento capii che avevo fatto la prima cosa da grande: avevo taciuto per proteggerlo e perchè avevo bisogno di stare da sola, lontano dalle cose stupide che si dicono in certi momenti, lontano dal chiacchiericcio inutile, per capire davvero quello che stava accadendo.
Dopo me, Giovanni chiamò sua nonna e le disse come stavano le cose, e in quel momento sperai solo che non si vedesse la mia paura. Anche lei faceva di tutto per sembrare tranquilla, ma le occhiaie e la pelle tesa del viso mostravano il contrario. Ripetè quello che aveva detto a me, ma quando sentii la parola leucemia pronunciata da lui mi si riempirono gli occhi di lacrime.
Allora ci abbracciammo forte tutti e tre e lui ci disse che c'erano delle cure, che insieme ce l'avremmo fatta.
In quel momento io diventò noi, la sua leucemia la mia. Lo sapevo, era una cosa spaventosa, il padre di una mia amica ne era morto solo qualche anno prima. In quei giorni la testa mi si riempì di domande: i sintomi? Possibile che non se ne fosse accorto? Qual era stato il momento in cui tutto era cominciato? Perchè nessuno aveva dato peso a quella tosse? Perchè lui quando si trattava di me si accorgeva sempre di tutto, e io, che pure l'amavo, non avevo pensato a niente? Se ami qualcuno dovresti prendertene cura. Forse non l'avevo amato abbastanza, se il mio amore era stato così irresponsabile?

Io e Giò abbiamo sempre parlato un sacco, e non cambiammo nemmeno nel periodo della sua malattia, ma cominciammo a cercarci con gli sguardi, a stringerci le mani mentre guardavamo un film insieme, a sorriderci silenziosi, sorrisi caldi, pieni di speranza che nessuno ci aveva dato. Testimone di tutto fu sua madre, che assecondò ogni sua decisione sulla terapia e, alla fine, le sue ultime volontà. In nove mesi non ho mai visto sua madre piangere. In certi momenti mi sembrava addirittura un'altra persona. La sua era una forza che si era temprata in altri silenzi, in un tempo lontano e giovane di cui nessuno sapeva nulla, e che all'improvviso tornava.
Pochi giorni prima di una delle innumerevoli visite non riuscii più a trattenermi e lo raccontai alle mie amiche di scuola. Il giorno dopo ricevetti una marea di sms e di mail, anche da parte di ragazzi e ragazze che non sentivo da una vita. A nessuno avevo detto come stavano davvero le cose e quindi tutti quei messaggi pieni di fiducia e di vita mi fecero l'effetto contrario, e ogni volta che ne arrivava uno nuovo dovevo reprimere l'impulso di scagliare il cellulare contro il muro. Quando tornai a scuola qualche giorno più tardi l'effetto novità aveva già cominciato a scemare. Tutti mi chiesero come stavo, come stava Giò, e poi basta. Le mie amiche smisero di venire a casa mia e io di andare da loro. Con la scusa che in queste situazioni è meglio non chiedere e non disturbare, attorno a me si fece il vuoto. I mesi successivi li passai come dentro un'ombra.
Compiti in classe, interrogazioni, qualche festa al sabato sera, piscina, passeggiate in centro, ma in ogni cosa c'era il mio fidanzato che stava morendo. La sua morte era ovunque: nello zaino tra i libri di scuola, nell'aria rosa e tersa delle sere di primavera, ma soprattutto nei suoi occhi consapevoli e rassegnati.
Ricordo di aver desiderato ogni giorno che ce la facesse contro ogni previsione: sì, avremmo avuto tempo, ancora, e avremmo imparato a non sprecarlo, quel tempo, a non attendere chissà quale futuro per le parole importanti.
Se qualcuno mi chiedesse cosa ricordo di quei nove mesi, risponderei niente di particolare, a parte i gesti, i sorrisi, le piccole cose di tutti i giorni - la vita è questa, adesso l'ho capito, sono gli istanti che contano, non le cose.
Credo che sia cambiato anche il mio modo di respirare: posso dire di aver imparato a trattenere il fiato, come se tutto quel tempo lo avessi passato sott'acqua, in attesa di prendere aria di nuovo.
Per tutto quel tempo ho avuto solo paura.
( Continua... )

Bacioni!

Jù.

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